Castelvetrano sia ricordata per il filosofo Giovanni Gentile non per Matteo Messina Denaro

Conte a Castelvetrano: "La città sia ricordata per il filosofo Gentile non per Matteo Messina Denaro. Alfano ha fatto tanto nonostante il dissesto”. 31/05/2024 - “La città deve essere ricordata per le cose belle non per quelle brutte, deve essere riconosciuta per il filosofo Giovanni Gentile, originario di Castelvetrano, e non per Matteo Messina Denaro”. Lo ha detto il presidente del M5S Giuseppe Conte oggi a Castelvetrano, una delle sue otto tappe siciliane, al fianco di Giuseppe Antoci, capolista Isole alle europee per il M5S, e degli altri candidati Cinque alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Di Enzo Alfano, il sindaco 5 Stelle di Castelvetrano uscente, Conte ha evidenziato: “Sono stai anni difficili per lui. Quando c'è un dissesto finanziario un sindaco ha le mani legate e bisogna tenerne conto, altrimenti non si riesce a capire i miracoli i che ha fatto avendo le mani legate. Qui c'è stata un'amministrazione che ha contrastato il malaffare, qualsia

Pasolini su Buttitta, il dialetto e la Sicilia: uno stingimento dei propri valori, fino all'abiura

Povertà e dialetto formano un binomio nell'articolo di Pier Paolo Pasolini «Ignazio Buttitta: Io faccio il poeta», pubblicato sul quotidiano “Il Tempo” l'11 gennaio 1974 (poi in Scritti corsari, Garzanti, 1975): "Dopo quasi trent'anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano. I pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. [...] Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, c'è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà".

23/09/2022 - Così prosegue Pier Paolo Pasolini nel suo articolo «Ignazio Buttitta: Io faccio il poeta»: "dopo quasi trent'anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano. Forse non continuerò. I pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent'anni d'età e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L'italianizzazione dell'Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com'è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c'è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica, concreta: mai centralistica; mai «del potere»)".

"Questo svuotamento del dialetto, insieme alla cultura particolare che esso esprimeva — svuotamento dovuto all'acculturazione del nuovo potere della società consumistica, il potere più centralizzatore e quindi più sostanzialmente fascista che la storia ricordi — è esplicitamente il tema di una poesia di un poeta dialettale, intitolata appunto Lingua e dialettu (il poeta è Ignazio Buttitta, il dialetto è il siciliano)".

Sempre Pier Paolo Pasolini: "Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma è sostanzialmente ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. Cultura e condizione economica sono perfettamente coincidenti. Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) «conosce» realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l'infinita complessità dell'esistere".

"È su questa crisi che, nel mondo contadino, si fonda storicamente la «presa di coscienza» di classe (su cui del resto incombe eternamente lo spettro del regresso). La crisi è dunque una crisi di giudizio sul proprio modo di vita, uno stingimento della certezza dei propri valori, che può giungere fino all'abiura (cosa avvenuta appunto in Sicilia in questi ultimi anni a causa dell'emigrazione in massa dei giovani in Germania e nell'Italia del Nord)".

"Simbolo di questa «deviazione» brutale e niente affatto rivoluzionaria della propria tradizione culturale, è l'annichilimento e l'umiliazione del dialetto, che pur restando intatto — statisticamente parlato dallo stesso numero di persone — non è più un modo di essere e un valore. La ghitarra del dialetto perde una corda al giorno. Il dialetto è ancora pieno di denari che però non si possono più spendere, di gioielli che non si possono regalare. Chi lo parla è come un uccello che canta in gabbia. Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l'abiura!)".

"Ciò che non può essere (ancora) rubato è il corpo, con le sue corde vocali, la voce, la pronuncia, la mimica — che restano quelle di sempre. Tuttavia si tratta di una pura e semplice sopravvivenza. Benché ancora in possesso di questo organo misterioso « coi suoi lampi negli occhi » che è il corpo, « siamo poveri e orfani lo stesso»." (P.P.P.)
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Foto Tano Cuva

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