Messina, 25/08/2023 - Sono un normalissimo
docente di scuola superiore che nell’ultima dichiarazione dei redditi ha denunciato un guadagno annuo di
24.260,41 euro lordi. In pratica, appartengo ai penultimi della classe. Il mio scaglione Irpef di riferimento è
quello compreso tra i 15mila e i 28mila euro, con un’aliquota pari al 25%. Durante l’anno scolastico terminato pochi mesi fa, mi sono proposto per un progetto, un cosiddetto Poc,
acronimo di programma operativo complementare, finanziato con fondi comunitari: trenta ore di lavoro
aggiuntive, remunerate ognuna con 70 euro lordi. Per un totale di 2.100 euro. Un’opportunità
professionale ed economica ghiotta, almeno dal mio punto di vista, che oggi, 24 agosto 2023, ha avuto il
suo epilogo, quando sul mio conto corrente si è materializzato il compenso netto: 934,52 euro.
Nemmeno
la metà dei 2.100 euro di cui sopra.
Eppure, per adempiere all’incarico, ho dovuto assumermi personalmente ulteriori spese, oltre a quelle
consuete di trasporto. Considerato che risiedo a Messina e i plessi della scuola in cui lavoro hanno sede a
Santa Teresa di Riva e Letojanni, dopo l’aumento dell’11% operato all’inizio dell’anno, pago mensilmente 90
euro di abbonamento alle Ferrovie dello Stato italiane. A questo si aggiunga il pranzo.
Poiché, noi
dipendenti della scuola, non solo apparteniamo al comparto del pubblico impiego con i compensi più bassi
– come certificato dalla Tesoreria ello Stato – ma non abbiamo diritto nemmeno ai buoni pasto. Eppure, a
dispetto di quel che raccontano le leggende metropolitane, siamo obbligati contrattualmente al rientro
pomeridiano per l’attività di programmazione e non solo. Si pensi ai collegi docenti, ai consigli di classe, alle
riunioni di dipartimento, al ricevimento dei genitori, agli scrutini.
Senza trascurare i corsi di aggiornamento
professionale e le varie attività extracurriculari, ormai, all’ordine del giorno.
Tutto questo a spese proprie. Per poi dover fare i conti con un fisco che tiene per sé oltre la metà degli
emolumenti. Infatti, la beffa ulteriore è che, delle somme trattenute, solo una minima parte riguarda i
contributi previdenziali. Il grosso del malloppo concerne i tributi. Quelli con i quali le istituzioni dovrebbero
finanziare la sanità, le reti di trasporto, la stessa istruzione e quant’altro uno Stato civile dovrebbe erogare.
Ora, vivendo a Messina, chiunque può immaginare qualche grande ritorno abbiamo a queste latitudini in
termini di servizi.
Le cure mediche, se si desidera siano tempestive e di qualità, sono a pagamento. Idem le
autostrade, assolutamente indegne di questo nome. La tassa sui rifiuti, malgrado si pratichi la raccolta
differenziata, è aumentata. Le strade cittadine sono disseminate di voragini e crateri, con ovvie
ripercussioni sugli oneri di manutenzione delle vetture. L’erogazione idrica è da Terzo Mondo. Le scuole
sono a dir poco fatiscenti, con gli studenti che fino a poco prima della ripresa delle lezioni non sanno in
quali locali potranno esercitare il proprio diritto allo studio.
Non mi dilungo ma mi chiedo come possa lo Stato pensare di combattere così l’evasione fiscale.
Con
un’inflazione molto vicina al 10%, i sussidi escogitati da Roma – compresi l’assegno unico universale e la
recentissima carta “Dedicata a te” – e le misure come l’abbassamento a termine del cuneo fiscale non sono
altro che mere illusioni finanziarie. Il cui scopo è esclusivamente quello di non far percepire alla
cittadinanza come tutto ciò che viene dato sia poi tolto con gli interessi. L’Italia è il Paese del bollo auto,
dell’Imu, del canone tivvù, della revisione obbligatoria degli automezzi, dell’Iva al 22%. Gabelle
anacronistiche che, non solo tartassano gli onesti, ma rendono impossibile fare impresa.
Gli unici a non
avvertirne il peso, nemmeno a dirlo, sono coloro che non le pagano. E che, fra un condono e l’altro, cadono
sempre in piedi.
Fabio Bonasera
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