Casteldaccia: la morte di 5 operai lascia sgomenti, ennesimo incidente sul lavoro grave e inaccettabile

Incidente sul lavoro a Casteldaccia: cinque lavoratori perdono la vita e un sesto è in gravi condizioni. La Cisal indice per domani, martedì 7 maggio, uno sciopero generale di 4 ore nel settore privato, a partire dall’inizio del turno di lavoro, "mentre dalle 9 terremo un sit-in di fronte alla Prefettura di Palermo”.   Palermo, 6 maggio 2024 – "L'incidente sul lavoro che a Casteldaccia, in provincia di Palermo, ha portato alla morte di cinque operai e al ferimento di un sesto, ci lascia sgomenti. Esprimiamo cordoglio e vicinanza alle famiglie dei lavoratori coinvolti e chiediamo che si accertino al più presto le cause di questo ennesimo incidente sul lavoro, grave e inaccettabile. La sicurezza sul lavoro è un'emergenza nazionale e come tale va affrontata a ogni livello, coinvolgendo sindacati, imprese e istituzioni". Lo dicono Giuseppe Badagliacca e Daniele Ciulla di Federerenergia Cisal in merito all'incidente sul lavoro avvenuto a Castaldaccia, nel Palermit

GIOIOSA MAREA, L'ANAGGIOTO, L'ARIA MALATA DI MILAZZO, LA MEMORIA E LA BLATTA VOLANTE

Milazzo, 13/09/2009 - L’Anaggioto è nato a San Giorgio frazione di Gioiosa Marea nella provincia di Messina. Il borgo ed il Comune che l’Amministra, sono divisi fino al mare, dalla Rocca di Calavà. Questa appartenenza ha il sapore di una inspiegabile punizione, una separazione che non ha mai favorito il dialogo; lo sviluppo caotico e speculativo, ha deturpato la sua bellezza. Il borgo di mare, comunque rimane il rifugio dell’Anaggioto, è la memoria dell’infanzia, nel quale ritrova la speranza per non fermare il passo e secondo la libertà che gli lascia il servizio, salta sull’auto e corre a ritemprarsi. Il Villaggio, ha la capacità di caricarlo dell’ossigeno che gli manca e fa visita, agli anziani Genitori.

La città di Milazzo, ove risiede e lavora quale Tecnico di Radiologia presso il locale presidio Ospedaliero, ha l’inquinamento che dal sottosuolo, arriva alle stelle. L’Impresa politica cittadina, è impegnata a costruire porticcioli, costruire fontane nelle piazze, imbastire lavori per fare parcheggi, continuarli a singhiozzo, recintarne lo spazio e lasciare alle intemperie, l’onere di completarli; accetta senza condizioni i fumi, le polveri, prodotti dell’industria della raffinazione e dell’elettricità; ha abbandonato perfino, la villa comunale, le strade adiacenti, alle zanzare tigri e gli abitanti che cercano sotto gli alberi, refrigerio alla calura, i bambini, spazio per giuocare, rischiano di uscirne sfregiati; dell’Ospedale che determina la salute e decreta l’onorabilità della città, non mostra alcun interesse, subisce senza dire una parola, la linea organizzativa e gestionale anche se non garantisce il futuro degli abitanti, lascia che altri ne disegnino l’attività; invero organizza le notti bianche su enormi tappeti di spazzatura, nell’odore nauseabondo, con il risultato di sperperare denaro pubblico ed appesantire, oltre la salubrità, la viabilità cittadina. L’Impresa, per voce dei responsabili interpellati, infastidita, con sufficienza, dichiara che tutto è sotto controllo.

Le donne, invero colpite abortiscono, mettono alla luce creature malformate, i malati terminali restano chiusi in casa a covare la speranza, che presto l’evento della morte li faccia respirare. La morìa di queste persone dimenticate, insomma continua nell’indifferenza più totale. Le indagini epidemiologiche, hanno un tempo di gestazione molto lungo, sono in corso, comunque non riescono a varcare la soglia della luce, sono un’occasione per ripetere le promesse. Il viaggio sulla pelle della gente, non cambia direzione, ed allegramente riprende. L’Impresa politica, ha scacciato l’anima, ha intrufolato le mani in ogni struttura pubblica, si è eretta a Padrone e fa affari, sfrutta le risorse derivanti in modo privato, costruisce comparaggi e profitti, mantiene sotto minaccia, mortifica le professionalità, i collaboratori; eroga ai Cittadini un servizio insufficiente, col risultato scontato, che abbiano a rivolgersi allo studio raccomandato col portafogli in mano.

L’Anaggioto, per evitare che gli venga addebitato uno, due minuti anche se la mattina è entrato in anticipo, aspetta con il cartellino in mano, che l’orologio scatti le quattordici. L’attesa, è stressante, non scorre, inoltre ha l’aggravio di ascoltare, una pressante, richiesta quotidiana, del medico sensale. La campagna speculativa ha tirato fuori dai magazzini, ogni barca, attrezzo, le ancore della tonnara, spargendole ai margini del prato e la spiaggia. I barconi, le barche sono state lasciate andare in pasto al fuoco, altre in rovina, i galleggianti e le ancore, ad abbellire le ville, i resti scampati agli sciacalli, sono stati ingabbiati, raccolti in una rete di plastica e lasciati a decantare sul prato. Il Medico sensale, ha il giardino della villa in campagna, sguarnito e desidera riempirlo con un’ancora della Tonnara. L’Anaggioto è Sagnuggiotu, non è il custode e tantomeno il venditore, dunque è senza titolo per trattare, il Comune di Gioiosa Marea nel quale insiste la frazione di San Giorgio, ne è responsabile, l’idea di creare il Museo della Tonnara, lanciata molti anni fa, non ha attecchito, le testine del villaggio, hanno preferito giuocare a mosca cieca, che il borgo finisse per perdere la memoria della storia marinara. L’Anaggioto, ha cercato che qualcosa restasse, non andasse perduta, invero la maggioranza dei Sagnuggioti, sono chiusi a coltivare il coraggio che gli manca, la vergogna è tanta, dunque preferiscono non ricordare. Il trentesimo anno e più, è scoccato, l’ultima volta che la Tonnara è stata calata, l’Anaggioto non era presente, aveva lasciato il borgo per costruire la sua strada. Le pietre sono evaporate, le promesse percorso periodi elettorali, legislature, il palazzo è andato in rovina. L’Anaggioto, stanco della persecuzione, mortificato, non sa che rispondere, ad un tratto gli salta l’idea e gli dice: “ ora che l’estate è agli sgoccioli e la sera scende prima, i turisti sono partiti, vada a San Giorgio con il SUV e carrello e prenda il suo trofeo, è la sua grande occasione. ”

L’Anaggioto, dunque ha posteggiato l’auto ed è entrato in casa, anzi ha salutato il padre che sul marciapiede s’ostina ad imbastire reti da pesca per i figli che al rientro, arraffano i pesci migliori e gli lasciano da pulire la barca e sistemare le rizzelle, saluta la madre che s’affanna intorno ai fornelli ed esce aspettando l’ora di pranzo.

La rivendita di Tabacchi di Giuseppe, è situata alla fine della traversa, sulla via Pola, rappresenta per l’Anaggioto, il luogo per scambiare quattro chiacchiere, magari incontrare qualche residente, dei conoscenti di passaggio, coetanei, invero molto difficile e seppure non ne ha la necessità, fa rifornimento di sigarette.

Gli avvenimenti locali, si associano in modo burlesco all’informazione dei giornali che nel cestello mostrano la loro valenza. Il giuoco della schedina del lotto, comunque sopravanza ogni altra speranza. L’apertura antimeridiana della domenica è molto trafficata, la moglie è in casa impegnata con l’anziana madre, insomma Giuseppe è con i capelli dritti, a chiodo, non ha un minuto libero ed a fare una passeggiata al mare, neanche a parlarne, dunque l’Anaggioto, entra ed esce sulla soglia, con la sigaretta in mano, inspirando ed esprirando. Uno sguardo distratto sulla strada e rientra ad aspettare un’improbabile disponibilità di Giuseppe. La notizia l’apprende, fra una tirata di naso ed un’incomprensibile suono tracheale, comunque gli arriva e ne rimane mortificato. Franco, il fratello più grande, ha litigato con la figlia Francesca. Il Bar Capriccio, con le carte in mano, è stato il teatro della rissa. La separazione consensuale con la moglie, sancisce che ogni mese, versi alle figlie, gli alimenti. La moglie, con la pensione, fa fatica a farle studiare. Franco, non ottempera ai suoi doveri, acconsente, rimanda, adduce pretesti, giustificazioni, ha perso la dignità di uomo e di padre, sebbene l’evidenza non lo classifica, il sistema neurologico, è stato colpito, insomma si è aperto un fronte di guerra.

L’aria malata di Milazzo, ha attraversato il mare ed ha raggiunto il borgo di San Giorgio, si disse l’Anaggioto cercando di nascondere la rabbia che gli montava, arruffandogli i radi capelli.

Il fratello più grande, si è allontanato di casa, ha lasciato la moglie e le tre figlie, alla ricerca di un’infiorata, una condizione di suprema elevazione, di ascesa celestiale, ed è incappato in un sogno degradato. Franco, è caduto nelle zampe di un ibrido animale, figlia di un ambiente innaturale, ha conati di cervello macerato e strazia le persone, con mazzi di erba orticante, con un effetto straziante su chi, malauguratamente si trova a passarle vicino. Ogni persona ha il diritto di scelta, è un principio incorruttibile. La femmina canina l’ha addentato, gli ha affibbiato, il figlio maschio, tanto desiderato. Un bambino non può essere barattato, la divisione è un concetto non accettabile, crea danni, insomma i figli appartengono ai genitori, non si abbandonano, altre mani non sono uguali. La donna non gode di precedenti onorabili, il dubbio è legittimo, gli ha iniettato una sostanza magica e l’ha reso dipendente.

Un padre non può abbandonare i figli, la moglie è un’altra cosa. L’animale ha infestato il borgo, ha cercato di travolgere con l’auto, sulle strisce pedonali, la sorella Anna e lancia ingiurie ignominiose, a destra ed a manca.

La memoria dell’uomo rispettoso, del difensore dei deboli, del professionista meticoloso, è un confuso ricordo e gli amici, le persone che l’hanno conosciuto, sbalorditi serrano i denti, le labbra e passano ad altro.La Blattigrada, l’ha indotto perfino a percuotere con calci e pugni, la sorella Concettina.

La Blatta volante, ha seguito la mamma pagare il conto all’ambulante di frutta e verdura e riporre il portafogli, si è introdotta in casa e l’ha derubata, accusando la vicina. La mamma stava in cucina, è ritornata a prendere il portafogli, per andare a comprare il pane, alla bottega della comare Rosa, non ha trovato i soldi. La paura che il padre venisse a conoscenza della ruberia, mise in allarme l’Anaggioto. La cardiopatia, l’insufficienza respiratoria, per la sofferenza, gli potevano assestare un brutto colpo.

La traversa si era trasformata in una fogna a cielo aperto. Il Maresciallo dei Carabinieri, che lo conosceva persona a modo, seria e dignitosa, costernato dal degrado, è stato costretto a diffidarlo.

L’Anaggioto, ha la testa confusa, saluta l’amico ed esce, attraversa la strada, la pineta, gli oleandri e la bretella che conduce sulla spiaggia, ha bisogno di respirare.

Un’auto in transito, addirittura rischia di travolgerlo, per il groviglio di rami che invadono il margine della strada ed impediscono un’adeguata visuale della curva. Il senso della prudenza che conserva, gli è sfuggito dalla nuca, si è alzato a mezz’aria e gli ha creato un vuoto. Un riflesso, invero gli è rimasto allerta, all’ultimo istante gli ha alzato gli occhi e gli ha trattenuto il passo indietro, nel viottolo che sfocia in strada, dunque ha ripreso le redini e si è diretto verso la spiaggia, a smaltire la notizia.

Le barche, il mare, che raccolgono la sua infanzia, lo accolsero con un tripudio di gioia, la notizia si ridusse e la difficoltà si sciolse in normale svolgimento dell’esistenza di ognuno. La battaglia in corso, immediatamente fu fermata dalla ragione, piegò le ginocchia a terra e pregò con letizia. Il tempo, chiamò gli anni accumulati, scavò una buca sotto l’asfalto in prossimità del cespuglio di canne a guardia del pozzo del depuratore ingabbiato nella rete metallica e li sigillò con sabbia, erbe e spine secche, che abbondanti coprivano lo schienale dell’arenile.

La voce di nonna Santa, scese dall’azzurro che nascondeva il cielo, con un fischio leggero lo chiamò, disse il suo nome e gli venne in soccorso. La carezza sulla fronte, gli alzò la testa sul collo, lo appoggiò sulla fadetta, lo prese in grembo, gli diede il conforto, la protezione che gli abbisognava e respirò lentamente.

La nonna, alta nella sua casacca nera, i capelli argentei raccolti sulla nuca, gestiva con energia la casa, con mano materna il vicinato, gli amici, la parentela. La traversa era un luogo pulito, senza un’erba selvaggia, senza insetti, l’armonia dei sessi, nella crescita, era leggera, anche la sera sulla spiaggia con la separazione del grano dalla pula, e l’infanzia corse rapida. La stazione era il luogo di partenza dei Sagnuggioti, i treni transitavano sulla strada ferrata sopra il muro e gli dettarono il ritmo dell’età.

La sveglia, batteva il tempo sui binari e la mattina, con l’inverno, la pioggia, il vento, la scuola, l’estate con il sole, la tonnara, le vacanze, le ore scorrevano senza noia, con curiosità. Il giorno lo prendeva per mano e con mezzo filone di pane imbottito d’acciughe salate condite con olio ed origano, lasciava alle spalle, la strada che manteneva schierate, le case del villaggio sotto la ferrovia, oltrepassava il prato incolto con l’erba alta e senza cambiare passo, entrava nella spiaggia continuando a camminare verso il mare.

Una passeggiata, indispensabile al pari dell’aria che respirava, incontrava le barche in secca, qualcuna all’ancora che incoraggiata dall’acqua cercava di liberarsi degli ormeggi, li salutava ed era contento. Qualche barcuzza a pesca con le lenze a traino, un motopeschereccio di piccolo cabotaggio che navigava a distanza, si confondeva nell’orizzonte, l’Anaggioto non si arrendeva, stringeva gli occhi e l’osservava con intensità. La distesa azzurra si rincorreva nelle onde e con il vigore della mente vi saltava in groppa e galoppava con la fantasia. Lo spirito gioioso, lo sorprendeva a chiamare una dopo l’altra, le barche dispiegate sull’orizzonte, ad immaginare i tonnaroti con la lenza in mano addossati alle murate in attesa del tocco al passaggio del pesce e raccoglieva nelle mani il creato, la bellezza che si riempiva di versi, d’allegria. L’esistenza, dunque gli scorreva lungo la spiaggia in compagnia delle ancore che la tonnara teneva a mezza costa, sull’arenile, con i bracci in fossati nella sabbia, a giuocare a nascondino, a rincorrere le onde che si dondolavano allontanandosi, sotto la calura.

Una mattina, l’aria leggera, scendendo verso il mare con la sabbia che gli teneva indietro il passo, s’accorge che un corvo volava nell’aria tiepida che il giorno aveva preso in prestito alla notte irrequieta, insonne, mareggiata. I corvi frequentatori occasionali della spiaggia, erano conosciuti dalle barche. Il villaggio, coltivava vigneti, uliveti, agrumeti e teneva a dimora, in collina e nella valle del Saliceto, anche querce ed alberi d’alto fusto. I Sangiorgioti la percorrevano a piedi senza alcuna fretta e ritornavano a casa cantando, con i prodotti della terra barattati con il pesce. La distanza, dunque restava vicina e con un volo a planare, i corvi conquistavano il cielo di San Giorgio. I cerchi si facevano sempre meno ampi, sorvolavano le barche con lo scopo di localizzare la preda. Il corvo cercava “ ‘u issu,” il panetto di grasso bianco che i pescatori usavano spalmare negli strozzi e sulle falanghe, invero sapevano ch’era nascosto, immancabilmente tenuto sotto la poppa, dunque dovevano trovarlo. Una leccornia che i pescatori, intendevano sottrarre, alla loro voracità.

La spiaggia e le barche, immobili sotto il sole tiepido, sonnecchiavano in un tentativo di recuperare, la fatica notturna. Il mare lentamente, con dolcezza si cullava nel suo moto, conversava in un tono amichevole con la battigia, richiamando l’attenzione dei mestieri ammassati, con chiare frasi di pacificazione. L’Anaggioto camminava, con i passi che accompagnavano alla bocca ed addentavano con morsi voraci, il pane di frumento che teneva ben stretto nelle mani. Il verso del corvo, che sorvolava la spiaggia, ad un tratto lo distrasse facendogli rallentare morsi e passo e di sbieco, volse lo sguardo in alto a scrutare il cielo per individuarne la provenienza. Il sole che sbiadiva l’azzurro e la miopia che lo affliggeva, gli confondevano la vista, impedendogli di scorgere l’uccello. L’impegno nell’individuazione del volatile, comunque non l’indusse a rallentare l’operazione e continuò a mangiare con gusto. Il pane ed acciughe, riducendosi gradualmente nelle mani, invero lo costrinse a dedicare più attenzione nell’attacco e strappo. Le dita, si erano avvicinate tanto che rischiavano di cadere vittime dei denti, la mozzatura, non rientrava nel programma. Un altro cracchiare, lo costrinse ad un morso incontrollato, dunque ad ingoiare un grosso boccone e con la bocca pericolosamente gonfia, col mento sollevato e l’arcata dentaria impegnata in movimenti impari, indagò i fili dell’aria e non senza affanno, gli apparse l’intruso, lo vide scendere di quota e posarsi sulla poppa della barca della sciabica in secca. L’occhio sfuggente, lo teneva discosto, l’Anaggioto, cercò un contatto con l’uccello, invero una barriera di linguaggio, costume e visione, li mantenne lontani, estranei. Il resto del pane che teneva con le punta delle dita della mano destra, dichiarò la sua insofferenza, la sua presenza andava soppressa, dunque sceso ad un compromesso, si distaccò per un secondo dall’uccello e si dedicò a portarlo in bocca e pulirsi le labbra con il dorso della mano medesima. Il corvo, invero resosi conto di non essere osservato, colse l’occasione e con un colpo d’ali calcolato, si occultò alla sua vista, scendendo sul tavolato che fa da pavimento alla barca. Il profumo che emanava il pezzo di grasso che i pescatori usano come lubrificante sui legni per fare scivolare le barche, gli possedeva l’olfatto, in un modo travolgente, oserei dire vergognoso ed a sprezzo del pericolo, s’infilò sotto la prua alla ricerca del nascondiglio.

L’attimo che distolse l’attenzione, per eseguire l’operazione dell’ultimo boccone, per portare a termine l’impresa, gli risultò deviante, ritornando con lo sguardo alla barca, s’accorse che il corvo era scomparso. La lingua a leccarsi le labbra, pensò che l’uccello, si fosse allontanato. Gli occhi rivolti al cielo, in una ricerca che gli risultò vana, sbirciando a destra e manca, le lampare e le altre barche schierate a breve distanza l’una dalle altre, con istintiva cautela, s’incuneò negli spazi della spiaggia non occupata dalla marineria che il corvo aveva preso di mira. Si disse che qualsiasi disegno, il predatore avesse

in mente, doveva sabotarglielo, dunque intendeva entrare nel suo campo e distruggerglielo. La barca della sciabica coperta dal silenzio del riposo, accarezzata dal lieve rumoreggiare della risacca e dai raggi del sole, china su se stessa, invero sopportava nelle sue viscere, l’accanimento dell’intruso, dell’ospite indesiderato evaso dalla visuale dell’Anaggioto. Il corvo, con sempre più irruenza e pedanteria, s’accaniva sulle tavole, le alzava dal loro alloggio e lasciandole inclinate, a pancia in aria, beccava le murate, introduceva il becco in ogni spazio, incurante dell’intimità, della riservatezza della barca di legno. Il corvo sapeva, che il grasso animale, era avvolto dai pescatori, in uno straccio di juta e riposto nella sassola, il cucchiaio che serve a togliere l’acqua della lavatura delle opere morte. Questa, invero si rifiutava a mostrarsi, dunque la mancata presenza, gli era di grande scorno. La sua assenza, insomma lo induceva all’accanimento, fino a mandarlo fuori dalle penne del collo e della coda. La ricerca struggente, affondava nei compartimenti che sottostanno al tavolato, negli elementi longitudinali, nelle linee portanti che strutturano in verticale la barca, e perfino nel foro che la percorrono da prua a poppa, e conducono al leggio, il buco di scarico dell’acqua. La sassola, insomma gli restava occulta, questo stressava la sua ricerca e sbavava dalle graticole del naso, a causa dell’impotenza.

L’ossessione famelica, gli faceva tremare il becco in un modo forsennato, la rabbia lo soverchiava e l’olfatto cominciava a ferirlo, ecco che ad un tratto, stremato, con il nero delle penne, deturpato da piccole macchie bianche, affini a tarli, specie in prossimità delle estremità, cadde in un’imboscata. Il coppo, in un tentativo di fermare la sua furia, gli catturò impigliandolo nella rete, la zampa destra. L’impedimento a continuare la ricerca, nella presunzione che la partita era giunta ormai alla fine, insomma inveendo contro i pescatori, cani di mare, neri, bruciati, per il sole e la salsedine, con uno strattone della zampa sinistra, si liberò della trappola, ne uscì con un’unghia rotta ed una forte contusione al sotto collo e lieve infrazione al becco inferiore, invero con dei danni collaterali. La causa inconsapevole, il secchio di zinco che “ bbuccatu, “ inclinato sul fianco, semicapovolto, se ne stava arroccato ai ganci che all’uopo, servono per issare e trarre in secca i pesci di media taglia che il mestiere riusciva a pescare, dunque ammucchiati all’ancora di mantenimento ed alle corde di canapa, erano stati messi a protezione dell’ingresso del sottoprua ove giaceva il prelibato panetto di grasso animale.

Il secchio di zinco che stava schiacciando un leggero pisolino, disturbato nel sonnecchiare, balzò a sedere e capovolgendosi con la bocca in alto, insomma ritornando allo stato normale, gli sferrò un colpo gobbo ed un morso micidiale. Il corvo restò senza fiato ed a becco aperto, dimenticò ogni dolore, ferita, fatica, acidità e si buttò a capo fitto nel buio triangolo della prua, sul grasso avvolto nella juta, con la sassola a cullarlo. Il pasto succulento , aspettava d’essere liberato dall’involucro ed il corvo, sollevatolo dal suo stato, lo elesse a simbolo del sacrificio. L’anaggioto, lo ritenne un’offesa personale e giurò che l’avrebbe condotto alla festa del Santo.

Il pane di grano con acciughe, invero ad un tratto s’affacciò sulla gola, dunque il corvo, gongolò sulla palla incastonata nella pala che sovrasta la prua e non s’accorse del cavaliere che l’aveva eletto a suo diletto. Un colpo di scimitarra dal basso in alto, bene assestato, gli tranciò di netto il collo mandandolo sulla battigia, rincorrendolo gli recise il becco compreso il naso, dunque gli smise la livrea, lo spogliò delle penne con estrema lentezza, lo raccolse componendolo nella lama e lo scagliò nelle acque, sbriciolandolo con amore, donandolo ai pesci, facendolo assurgere agli altari del vecchio e grasso “ piscisceccu “ che a periodi compare sottocosta, divorando perfino una capra che sbadatamente si era ritrovata a pascolare sulla battigia.

L’imbeccata del corvo, anche se smorzata, affaticata, prima che fosse annientato dal Cavaliere, invero uno scempio, non sorprese il panetto di grasso che si era disposto ad affrontarlo, spiando le sofferenze dei pescatori, si era raggomitolato, intrecciato a “ nerbo “ e con il coraggio proveniente dalla specie, aveva ricreato l’anima animale che ancora albergava in lui, ponendosi alla mercè degli uomini.

La marineria di San Giorgio era un vanto, la gara delle barche per la festa del Santo, con i borghi rivieraschi, un risultato scontato. I tempi, comunque erano grami, segnati dalla miopia dei padroni di barche e mestieri.

Le battaglie dello scrittore, pittore e politico, ENNIO SALVO D’ANDRIA, a favore dei pescatori di San Giorgio, non ebbe l’effetto sperato. I pescatori, iscritti nella cooperativa Giuseppe Accordino, per prima nella provincia di Messina, aveva ottenuto gli assegni familiari. La previsione per l’acquisto di pescherecci per assicurare loro un lavoro tutto l’anno, invero fu cancellata. I SAGNUGGIOTI, incapace di giudicare con la propria testa, intimiditi dai padroni, hanno preferito non partecipare e distruggere il lavoro svolto. L’attività politica del Professore Ennio Salvo D’Andria, aveva ottenuto la Delegazione Comunale, conquistato il Cimitero, invero la maggioranza gli voltò le spalle e seppure con grande dispiacere, andò a ricoprire l’incarico di Sindaco nel Comune di Oliveri. Un borgo marinaro, che nel 1948, era squallido al pari di San giorgio, non aveva strade e fognature, né farmacia, né acqua.

“ ...E io sono lieto di avergli dedicato 7 anni di intensa attività perché quel popolo eccezionale ha meritato in pieno ogni mia premura. Ho fatto quel che dovevo e ho mantenute le mie promesse, anche se una sottospecie di Geometra imbecille di S.Giorgio lo contesta. Voi però sapete che il mio paese è questo e che avrei preferito dedicare qui tutte le mie attività. Ma Voi, perdio! Me l’avete impedito!, E poi, invasati da una crisi di autolesionismo, avete distrutto ciò che avevo fatto per sollevarvi dalla miseria e dalla schiavitù. Non tutti, certamente. Solo la maggioranza. E io ricordo ancora quelli che rimasero accanto a me recriminando quant’era accaduto.

Ora stringo la mano a tutti, anche a quelli con la corda. “ scrisse “ ‘ U Prufissuri Barbitta “ ai Sagnuggioti.

La Cooperativa Giuseppe Accordino, per lunghi anni mantenne il suo simbolo sul terreno. Il prato a circa tre, quattro metri dalla strada, fra l’odierno Capriccio, la Cartolibreria Senso-unico e la rivendita di Tabacchi, ospitava “ La pista. “ Il quadrato in cemento con infissi due pali ai lati, è stata per anni, il punto di riferimento di quei quattro sparuti pescatori, che non avevano dimenticato, o capito in ritardo, il lavoro del Professore Ennio salvo D’Andria per San Giorgio. La cooperativa Giuseppe Accordino, avrebbe spezzato il nodo che teneva legati per il collo, i pescatori ai pescivendoli, ai Padroni. I pescatori, tirata la barca in secca, sbarcavano il pesce pescato e con le cassette in spalla, raggiungevano la pista. Il pesce era messo all’asta e venduto al migliore offerente. Il sabotaggio era un mezzo, l’asta andava deserta. La minaccia degli Squamani, colpiva il lavoro, l’unica risorsa per campare, la mancanza di coraggio, la paura indusse i pescatori, a tradire i propri figli, la famiglia.

Gli Squamani, non dettavano il prezzo, il pescato non aveva valore, il rischio di portarlo a casa per mangiarlo, aveva i giorni contati, la ribellione di quattro è un colpo di testa ed immiseriva la casa. Il Professore Ennio Salvo D’Andria, intendeva sollevarli dalla miseria e nella sua attività a favore dei pescatori di san Giorgio, intese onorare la memoria del marò disperso in guerra, figlio di Santa Canfora e Francesco Accordino. Peppino era il secondo dei fratelli, Carmelo, il padre dell’Anaggioto, il primogenito. La nonna Santa, nella sua casacca nera, aspettò che il figlio, tornasse a casa, fino alla morte. La speranza che il secondogenito fosse vivo era supportata dalle zingare, la nuora, Francesca Ottoveggio detta Gina, madre dell’Anaggioto, cercò di contrastarle. La battaglia sembrava allontanarle, invero non sortiva alcun effetto, la petulanza delle donne e la debolezza della nonna, le riportava sulla soglia. Una madre non si rassegna alla perdita del figlio e raccoglie ogni notizia e si culla in essa per non morire. I pescatori di San Giorgio, erano divisi, i mestieri, dal cianciolo alla sciabica, erano gestiti da “ Calogero ‘u Bancheri, “ era il capo barca di molti mestieri, una marineria locale con una numerosa ciurma e pescava per conto dei padroni. La corporazione, con svariati collegamenti, teneva in mano i pescatori, rappresentava il “ Rasi Mau,” il fratello sottorais, i pescivendoli che mantenevano rapporti stretti con la baronia.

Il padrone di barca, Francesco Accordino, calava conzi e nasse. Il nonno dell’Anaggioto, pescava per conto proprio e mal sopportava l’arroganza dei compratori, arrivando addirittura a ritirare il pesce pescato, dalla pista. L’operazione di libertà, di dignità, era stata spezzata, la cooperativa era stata svuotata della sua utilità, aveva perduto la sua forza, esaurita, rimasta incompiuta, non serviva ai pescatori, era stata ammazzata dai Sagnuggioti, da quelli con la corda come li chiama il Professore Ennio Salvo D’Andria.

I pescatori, senza alcuna protezione erano alla mercè dei pescivendoli, depositavano il pescato sull’incementato ed aspettavano che “ I riatteri “ facessero il prezzo. La gara non aveva storia e con l’arroganza della corporazione, escludevano malamente, ridicolizzandoli, prendendosi giuoco, di Salvatore Pittari detto Balici e Nino La Rosa. La loro carretta andava a forza di braccia, sotto l’acqua ed il vento, il clima non era mai clemente, Salvatore Balici con sul portabagagli della bicicletta alcune cassette di pesce azzurro, qualche polipo, seppie pescate con la sua barcuzza, quel che riusciva a racimolare, una mano dietro e l’altra al manubrio, scalzo, la camicia legata con un nodo sulla pancia abbondante, i pantaloni a mezza gamba, saliva arrancando “ ntacchianata “ di Patti, a squarciagola offriva agli abitanti la sua merce, l’altro si recava nei pressi di Librizzi. Le peripezie che la quotidianità offriva loro, accomunati nella malasorte, mi ha fatto pensare che a dichiararli fratelli gemelli, l’uno pieno, l’altro magro, d’uguale e bassa statura, non era un’avventura.

Salvatore Pittari, era più grintoso, la responsabilità della famiglia lo spingeva a cercare un modo a non soccombere a quei “ canazzi. “ La bicicletta a fianco, i pantaloni con il cavallo sulle ginocchia, le gambale arrotolate, camminava accompagnato dal suono degli spiccioli in tasca, osservava il mare dalla statale per Calavà. La bicicletta posteggiata dietro il deposito attrezzi della casa cantoniera, in modo che non fosse visibile, scendeva il viottolo fin sulla spiaggia, s’avvicinava alla battigia, lanciava qualche pietra in acqua, guardava l’effetto e s’arrampicava ritornando in strada. Il fiato corto, inforcava il veicolo e partiva, il nascondiglio non era distante e dopo non molto ritornava, appesantito, con fare circospetto, con cautela, scendeva in spiaggia e camminava, si fermava e si eclissava. Le scarpe non erano un abbigliamento che amava, dunque non vederlo con i piedi scalzi, era un avvenimento straordinario.

Quando credeva che il momento era quello buono, innescava e correva, andava a velocità sostenuta, quasi volava, insomma era lontano quando lo scoppio della bomba sconvolgeva le acque del mare. Le braccia e le gambe, con sincronismo perfetto, spingevano i remi nell’acqua e la barcuzza appariva nello specchio di mare con i pesci a galleggiare. La raccolta era veloce, l’impegno meticoloso, i pesci andavano a fondo e con il coppo e lo specchio a portata di mano, lavorava di gran lena.

Una mattina, inforcata la bicicletta si era allontanato da casa. La voce di Salvatore Balici “ ‘ntacchianata “ i Patti quella volta, le donne di casa, non riuscirono a sentirla, ascoltarono, guardarono in strada e si chiesero dove fosse andato. Nino La Rosa ritornando dal suo giro, il pesce era poco ed aveva fatto presto, si meravigliò di non averlo incontrato. La famiglia non vedendolo rincasare mancando il pranzo, si era preoccupata ed aveva chiesto in giro, a parenti e conoscenti, nessuno l’aveva visto, a Nino la Rosa, con lo stesso risultato.

La signora “ Pitruzza,” la moglie non si dava pace e continuava incessantemente a chiedere, sguinzagliando i figli in ogni dove, Santinu, Ciccinu, Giuvanninu e Pina, la figlia minore che stava irrequieta, un carattere al peperoncino, il coraggio di un maschio, all’incontrario di Nunzitina ch’era più tranquilla, affidabile. La barcuzza era nello scarro, ogni cosa, sembrava in ordine, dunque si fece sera, sul tardi, la ricerca ebbe inizio, le lampare scesero in mare, biciclette, lambrette e qualche auto, percossero la statale, fin sotto l’alba. Salvatore Balici, a causa dei richiami, delle luci, riuscì ad emergere dagli scogli ove si trovava. Gli ematomi e le ferite, non gli permettevano di camminare, fu trascinato di peso in barca e riportato a casa che la luce del giorno, spazientita, corrucciata, gli voltava le spalle, si girava da un’altra parte per non guardare, quell’uomo mortificato.

Le supposizioni si susseguirono smentendosi a vicenda, avanti di qualche secondo. Un rapimento, un avvertimento, una rapina, una caduta accidentale, più verosimile che si fosse abbattuto con le proprie mani, comunque la causa, rimase ignota ed i Sagnuggioti ripresero il loro quotidiano travaglio, lungo il sentiero designato. Una decisione diversa dal quotidiano andare, rompe l’equilibrio instaurato e non conduce che verso la sofferenza.

I pescatori, insomma il collo nel cappio, erano ostaggio dei “ Riatteri. “ I Puglia, Garito, Cicirello, Barbera,” si direbbe che avessero un accordo di cartello, avevano punti di vendita, depositi, dunque conducevano a piacimento, l’acquisto. I pescatori, gli erano debitori del prezzo dell’esca, dei Mestieri non erano padroni, non avevano capacità di contrattazione. La cooperativa Giuseppe Accordino, costituita era rimasta sulla carta, le grandi speranze, l’istituto appena nato, vanificato, estinto. La divisione, aveva schiacciato i pescatori nella sabbia, nelle murate delle barche, sotto il sole, la salsedine e quando le burrasche li sorprendeva sul mare, San Giorgio, il Santo Patrono, non intentava neanche un abbozzo di soccorso, la spada lanciata sulla testa del dragone, con il cavallo che recalcitrava sui ginocchi, vacillava. Il Santo abbagliato dalle pietre colorate del mosaico che lo incorniciavano, aveva perduto l’attrezzo ed il potere conferitogli. La battaglia contro il drago, l’aveva stancato, stressato, aveva bisogno di riposo, dunque non aveva più la capacità di salvare i pescatori.

L’ultimo anno che la tonnara di San Giorgio, è stata calata, sarà stato il 1973. La ciurma infarcita di vecchi e ragazzi pareva raffazzonata, varata con soldi pubblici era alla guida il fratello di “Rasi Mau. Rosario Salmeri. “ “ U Suttarasi,” dunque prese il comando e dal San Francesco guidò la Tonnara in una improcrastinabile, definitiva, ritirata nei magazzini. La pesca tradizionale, del tonno non era proficua, altri modi di pesca erano entrati nel mare e le rotte spezzate. I padroni s’imbarcarono alla guida di altre flotte e veleggiarono verso mari più tranquilli e propserosi. La tonnara abbandonata nel buio dei capannoni, relegata dietro le immense porte di legno, decantava senza rimedio, San Giorgio, con i miracoli esauriti, andava in processione, guardava il mare in burrasca, raccoglieva qualche preghiera, imprecazioni colorate e ritornava sull’altare a sonnecchiare, rischiando perfino di andare a fuoco a causa delle tante candele, di lumini votivi, finire in fumo con le sue vestigia di guerriero. I pescatori, ormai senza sbocco e risorse, spinti dalla necessità, con i figli a studiare, le giovani generazioni col desiderio di una vita diversa, presero il coraggio che i padri non avevano avuto e cercarono rifugio nell’emigrazione estinguendo la marineria.

L’Anaggioto, in un tempo che non ebbe a misurare, ritrovò gli anni deposti nella sabbia, la spiaggia con alcune barche da diporto che con un pieno di benzina giravano per ore ed ore in lungo ed in largo il mare, senza rispetto delle regole di pesca che Carmelo Accordino, chiamava “ bagnarole “ e camminando a testa china, controllando i passi che tendevano a vacillare, fece ritorno nella casa del padre a consumare il pasto. Il ritorno a Milazzo, non fu molto agevole, la tensione l’aveva stancato nel fisico e nella mente, lo stimolo del vomito lo teneva allerta. La sigaretta nella mano destra, il libro di kolosimo, “ Ombre sulle stelle “ nella sinistra, si mise a leggere e si estraneò da questo mondo ritrovando la leggerezza, la serenità che aspirava, che cercava di raggiungere, era stanco di soffire, aveva bisogno di riposare. ( continua )

Accordino Antonio

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