Vendita AGI, Antoci: “Operazione priva di trasparenza. Si applichi il Media Freedom Act”

Vendita AGI, Antoci (Capolista M5S Collegio “Isole”): “Operazione priva di trasparenza. Si applichi il Media Freedom Act”. Nota Stampa di Giuseppe Antoci, candidato capolista circoscrizione “Isole” alle elezioni europee col MoVimento Cinque Stelle 4 mag 2024 - "Lascia sgomenti la decisione di ENI, azienda partecipata dello stato, di trattare la cessione dell'agenzia di stampa AGI con il parlamentare leghista Angelucci. Un'operazione "folle", come giustamente definita da Giuseppe Conte. Altrettanto allarmante è il fatto che la vendita si stia realizzando mediante una trattativa privata in assenza di un bando di gara a tutela della trasparenza dell'operazione. Bisogna arginare condotte come queste applicando il "Media Freedom Act", legge europea per la libertà dei media tesa a proteggere i giornalisti e i media dell'UE da ingerenze politiche o economiche e ad evitare la concentrazione dei media sotto il controllo politico (come nel caso di Angeluc

IL PONTE SULLO STRETTO COLLEGA UCRIA ALL'AFRICA E A NONNO PIPPO

18/06/2010 - Mia madre era messinese, mio padre è calabrese, e io sono il Ponte sullo Stretto. Tanti viaggi per andare a trovare i nonni, lungo tragitto in macchina da Palermo fino a Messina, mio padre metteva una cassetta di Claudio Baglioni, conosco ancora tutte le canzoni a memoria, è più forte di me, anche se non vorrei. E poi il patto dell’identità: fino allo stretto si parla in italiano,
dalla Caronte in poi era permesso l’uso del calabrese reggino, come mi sentivo libera in quel linguaggio, nell’allusione dialettale, forte in un piccolo paesino, nulla in una città inebriante e deduttiva come Palermo, dove le mie radici erano ancora volanti, soprattutto se ricordo il Capo, nella scuola dove mia madre insegnava, in mezzo al mercato, il dialetto palermitano era un ponte proibito.

Anche a Ucria, il paese di mia madre, le uniche parole che conoscevo erano le parole che si dicono ai bambini: giuitta, piccitta, carusa o i nuciddi che raccoglievamo tutti insieme a Santa Caterina, la campagna a terrazze di nonno Pippo, un falegname-contadino innamorato dell’Africa: mi sono sempre chiesta perché sia tornato.

Sì, perché un ponte che ancora mi lega al suo ricordo è la passione bruciante per l’Africa che mi ha portato a studiarla, mentre intanto ho imparato il siciliano, e le radici non sono più volanti, ed io sono un’emigrante, che quando sente parlare siciliano, in un film o per la strada è capace di commuoversi.

Una strana commozione, però, senza lacrime ma rabbiosa ed euforica, e tutta la sicilianeità che ho tra i capelli si condensa in un proverbio, o in un atteggiamento guerriero che tanto mi caratterizza, anche quando non è il caso: una specie di fico d’india, spinoso, ma in fondo duci.

Arrivare a Messina era come una specie di incipit, l’odore dello stretto è diverso dall’odore del mare, ancora oggi quell’odore lo riconosco, la fila delle auto, io che scendevo investita dalla responsabilità di comprare il biglietto per la Caronte. La Caronte, che nome.

La macchina entrava lentamente nel ventre della nave, si poteva finalmente scendere, ottenere la sacra arancina della Caronte, andare a mangiarla sul ponte, con la testa ficcata in uno degli oblò bassi della nave, col vento in faccia e il cervello nella spuma bianca che man mano si muoveva per cancellare ogni traccia di Palermo dietro di sé, solo l’odore dell’arancina e del mare dello stretto.

Mamma era una maestra, molto simpatica e innamorata di noi, ci faceva addormentare il pomeriggio, o almeno ci provava, raccontandoci le storie di Omero, per cui Caronte, Scilla e Cariddi avevano un senso, i mostri e le sirene nascosti sotto la nave, affascinanti e terribili.

Non so quanto durava quel viaggio, ma ne ho una collezione di ricordi, dall’attesa alla traversata all’arrivo, prospettive che si mischiavano e che ancora si mischiano, camion altissimi, le due coste, una contro l’altra che mi riassumevano, figlia di entrambe e di nessuna, già con strane idee per la testa, viaggiare, da sola, il mondo, i dialetti, le arancine, la pignolata, la soppressata.

Un vortice di odori e colori, abbracci, l’odore della macchina e dello smog mischiati all’odore dello spostamento, presagio di libertà che avrei assaporato a Caraffa, sali e scendi di viali di campagna, il mulino dei nonni, addormentarsi sulla lapa, (la moto-ape) o sui sacchi di farina, prendere confidenza con gli animali e litigare con la nonna, e tutta la malizia repressa di un paesino dove il controllo sociale si esprime a livello del curtigghiu e della salvezza dell’onore a tutti i costi, una specie di anima parallela a cui ci si affida sotto i mille abitanti.

Ma questa è una storia che ha più attinenza con la prima mestruazione, quel ponte con l’essere donne, che forse è un’altra storia, forse no. I ponti precedono le persone che li attraversano, sono le specificità che verso l’altro si sospendono proprio nella tensione verso l’altro.

(Elisabetta Bagnato)
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