Sono annegati in 6 nel tentativo di raggiungere la riva, poi rivenuti morti sulla spiaggia del lungomare Plaia di Catania. L'imbarcazione sulla quale avevano viaggiato si è arenato a 15-30 metri dalla riva. Gli extracomunitari che non sapevano nuotare sono 'precipitati' in un canale profondo alcuni metri, prima della battigia. A bordo dell'imbarcazione erano in 120 tra cui molte donne e bimbi
Sei morti nel “reality” di Catania, Anna Lombroso per il Simplicissimus
10/08/2013 - Fleba il fenicio, morto da quindici giorni, dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare e il guadagno e la perdita. Arrivano di continuo fenici o naviganti della disperazione nella nostra terra desolata. Quella di stanotte è il bel lungomare di Catania, quella delle spiagge, della movida. Nel mio ricordo ci sono grandi palme ombrose e gelaterie dove si gustano il gelo e sorbetti profumati.
Ieri un peschereccio con 120 “fenici”, forse siriani, chissà, si è arenato vicino alla riva a 15 metri dalla riva. Sei di loro tutti giovani sotto i 30 anni, uno addirittura un ragazzino, sono annegati in un canale profondo tentando di raggiungere la bella spiaggia. E i loro corpi sono rimasti per qualche ora là sulla spiaggia del lungomare Playa, nei pressi del 'lido Verde', uno dei tanti stabilimenti balneari che si trovano sul lungomare Kennedy.
Altro che Mission, altro che reality da guardare il televisione, ascoltando il dolce suono del ghiaccio nel bicchiere di scotch, corpi nudi irrompono nelle nostre vite, ingombrano, per poco temo, le nostre coscienze, turbano la vista del mare che si allunga sulla battigia, pacifico e amico solo guardandolo dalla chaise longue.
Immigrati, clandestini, irregolari, qualcuno magari promosso a
rifugiato, anche se tutti i “fenici” da ovunque vengano cercano rifugio
dalla fame, dalla guerra, dalla pioggia o dalla siccità.
Compresi
delle nostre “perdite”, rovesciati dall’opulenza all’indigenza, ci
chiediamo cosa sperino di trovare qui, dove molti nativi, ricattati da
pochi, rinunciano al domani per l’unica certezza della fatica e della
sopravvivenza. La gran parte di noi guarda a loro con occhi e sentimenti
non diversi da quelli con i quali guardava i contadini che sciamavano
tanti anni fa dal Sud verso il Nord, esigenti, affamati protervi,
stranieri.
Siamo tutti stranieri gli uni per gli altri, ma noi
rivendichiamo di essere fragilmente aggrappati a un’eco di identità,
attaccati a una sostanza piccola o grande di privilegio o di ciò che
prendiamo per tale, e che non ammettiamo in loro, come se per essersi
sradicati, essere partiti su un peschereccio, su un barcone, su un
gommone, avessero volontariamente rinunciato e perso il diritto
all’appartenenza e guadagnato il dovere di assomigliarci, assumerci come
modello da imitare e cui assoggettarsi, in cucina, in camera da letto,
in chiesa.
Anna Lombroso per il Simplicissimus
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