“Cosa c'è in tavola?”, i prodotti alimentari e le bevande contraffatti nell'UE

“Cosa c'è in tavola?” L'EUIPO denuncia i prodotti alimentari e le bevande contraffatti nell'UE ·         Le autorità hanno sequestrato prodotti alimentari contraffatti per un valore di 91 milioni di euro in un'unica operazione a livello europeo ·         I vini e le bevande alcoliche registrano uno dei tassi di contraffazione più elevati rispetto ad altri prodotti, con perdite annuali di vendite pari a 2 289 milioni di euro e quasi 5 700 posti di lavoro nell'UE. Solo in Italia, ogni anno in questo settore si registrano perdite pari a 302 milioni di euro e oltre 648 posti di lavoro ·         Sono stati rinvenuti alimenti e bevande contraffatti contenenti sostanze pericolose quali metanolo, mercurio e pesticidi tossici ·         Le indicazioni geografiche sono un marchio di autenticità. L'Unione europea conta oltre 3 600 prodotti con indicazi...

“MARIA MARTICANA, FATA MAVARA EOLIANA”, UN NUOVO RACCONTO DI GIUSEPPE ALIBRANDI

(di Giuseppe Alibrandi) - Il capitano leva l'ancora, lo skipper Diego a capo dei novelli argonauti salpati sull'Hiram, alza le vele con Giorgia alle scotte e al resto pensa il figlio d'Ippota, Eolo, che gonfia le vele. Ci lasciamo alle spalle la caldera di Pollara che come San Giorgio ha perso la sua spiaggia per dirigerci a Panarea, Destinazione Stromboli l'isola che non ha perso i connotati eoliani con le sue spiagge nere, le architetture dalle modanature bianche interrotte dal blu tonno.
Ancora oggi al molo sovrastato dalla parrocchiale di san Bartolo gli aliscafi a ogni tre ore vomitano frotte di visitatori mordi e fuggi per riprenderseli in pancia nelle prossime fatidiche ore. Solo a Ginostra continuano a serrarsi gli eoliani difesi dalla darsena porto. Da lontano avvistiamo Ully e a perdifiato gridiamo il suo nome ginevrino e per noi ha un gesto di ricambio che lo sottrae alla monotonia delle rampe che lo portano sotto il ristorante di donna Maria Petrusa. Guida il suo asino Willy carico di mercanzia che un camion fermo al molo di recente impianto custodisce fino esserne sgravato. Anche Ginostra si è arresa all'inurbazione e una di queste sere sarà teatro della Festa del fuoco che continua ad animare le serate stromboliane: Neanche noi strologhiamo armati di Ipod e Notebook allacciati al segno di una civiltà dove si svolse - scrive Consolo nelle "Isole dolci del Dio" - la prima e più fascinosa avventura, il primo poetico viaggio della nostra civiltà. Su quest'isola è verosimile raccontare un raduno letterario dei tempi moderni accolto da Ully e Willy e dal suo nocchiero viareggino dall'inconfondibile mani a pala e dalla barba di un Caronte che ancora si vede non hanno perso il mestiere antico di traghettatore sulla distanza di Stromboli-Ginostra che una a volo d'angelo, all'ora dell'infornata, percorre, per mettere insieme la pagnotta per il suo figlio che il padre orco cattivo vuole affamare. Una metafora moderna sui tempi moderni in cui l'approdo a queste isole non ha l'anelito ulissiano e non dissimula ansia, scoperta, desiderio di conoscenza perchè il progetto della storia ha poche linee identificabili a parte le pulere, gli archi a tutto tondo e il blu delle porte.

Maria Marticana Fata mavara eoliana 
di Giuseppe Alibrandi

L’isola ha il porto più piccolo del mondo: una darsena naturale tra gli anfrattuosi scogli di lava che a ponente tengono le barche al riparo dei venti di tramontana. La darsena si apre a ventaglio ai piedi di un ripido tornante che conduce alla pensione Pertusa dove donna Maria punta dall’alto equipaggio e viaggiatori appena sbarcati dal gozzo-espresso Stromboli-Ginostra.
L’approdo al porto è problematico e il Caronte di queste parti si destreggia a prua e a poppa con le sue pale di carne umana che fanno da respingenti sulle rocce precipiti di lava. A volersi guardare attorno è un vero labirinto, invero assai districabile.
Il moderno Caronte è un viareggino biondo barbuto, il primo esemplare di quella variegata colonia di disurbanizzati venuti a ripopolare l’isola. Tutta gente inurbata venuta a isolarsi per amore di quell’ecologismo isolano, elisir di lunga vita. E in fondo l’isola, col suo porto più piccolo al mondo, è simbolo di quella condizione insulare nella quale è difficile entrare e dalla quale è ancora più difficile uscire.

E’ difficile infatti spiegare perché Ully, altro componente la colonia,sia venuto ad isolarsi a Ginostra dove le sere sono rischiarate dalle luci a petrolio e abbia scelto, lui ginevrino dai modi affabili, occhialini intellettuali a stanghetta, di fare il corriere su e giù per timpe trazzere e viottoli assiepati di fichidindia e ginestre, bordonaro di un asino a nome Willy cocciuto e viziato fino al punto da preferire alle biade le sigarette Nazionali del padrone ginevrino, senza mai trarre la giusta lezione impartitagli con scariche di verghe da orbi sul groppone. Anche l’asino dello sradicato Ully si è adeguato ai modi urbani del suo padrone ginevrino e in mancanza di sigarette nazionali ripiega sul granoturco che donna Maria Petrusa lascia sull’aia alle sue galline.
Ahi che dolori per quella linguta della liparota venuta col marito sull’isola ad ammannire paste incaciate per il piacere dei vari avventori!

La donna è colonna di basalto rotta dal rosa delle labbra carnose,ingentilito dal biancore dei denti più splendenti di quelli di squalo, sempre coi fianchi appoggiati allo stipite a chiedere ai vari avventori, ansanti sulle ultime rampe del viottolo: - Ce n’è di gente alla pensione Petrusa ?- Solo se alla pensione del cognato c’è il pieno, gli avanzi verranno da lei fino a Ginostra.
Ully e Caronte non potranno mai essere suoi clienti, neanche occasionali. Né tampoco quegli altri poveri Lazzari – così li chiama – che giusto a Lazzaro, un gruppo di casette isolate, animano il resto della colonia. Sono intellettuali vari che formano quell’angolo appartato di editori e scrittori occasionalmente costituitosi quando il boom della lettura consentiva ai bilanci dell’editoria l’investimento di piccoli risparmi in quelle sperdute case eoliane a cubo, col terrazzo a livello che guarda il mare.
Così Parisot, editore di libri miniaturizzati in Parigi, Bengaudi il piemontese col bilancio più grosso e Falco de Falconibus, editore minore ma pungente, dal bilancio più piccolo, ogni anno si davano convegno in quell’isola portandosi dietro il codazzo di giovani autori poco gettonati ma fortunati di stare a quelle tavolate dove ci si abbuffava di letteratura e si ascoltavano i nuovi programmi editoriali per l’autunno.

Il clou dell’estate sull’isola arrivava quando la comunità di editori e scrittori celebrava, in anteprima, il suo premio letterario, una moda che andò istituzionalizzandosi fino alla partecipazione su invito curata dal critico dottor Tracina, meno velenoso di quanto il nome sottintendesse. Tutti avevano sperimentato cosa fossero i dolori procurati dalle spine di quel pesce nel pulirlo o nel pescarlo. A Lazzaro l’aveva provato sulla sua pelle Falco de Falconibus quella volta che tirato l’amo, la tracina si era divincolata e ballonzolando, nella sua agonia, l’aveva punto al piede. Furono dolori atroci, cronometrati a distanza di cinque minuti per l’intensità della ripetizione. Nessuno prese sonno quella notte, dopo la cena consumata a base di zuppa di pesce.
Quello della zuppa di pesce era uno degli appuntamenti importanti della comunità, la seconda istituzione dopo l’avvento del critico dottor Tracina sull’isola. La zuppa di pesce si cucinava allorché sette tracine pigmentate dai colori brunoperlacei abboccavano agli ami del palingrese calato da Falco de Falconibus, l’unico che sapesse rifornire la tavola della comunità supplendo alle magre di letteratura con abbuffate di pesce.

Parisot ci provava col suo fucile a pompa a dare la caccia alla cernia, mancando all’appuntamento che ogni mattina, avviandosi alla scogliera, doveva essere quello buono. Fortunato in editoria lo era meno nella pesca. Si dava il caso che Falco de Falconibus, partito di buon’ora si trovasse su di un banco di tonnetti; il mare sottostante era plumbeo. Parisot venne a vedere inguainato nella sua immancabile tuta. Gridava emergendo dall’acqua:- Ragazzi.. ragazzi! Cosa ho visto !- E tornava a immergersi in quel tratto di mare ormai sgombro del banco di tonnetti. Falco de Falconibus aveva dato loro la caccia con l’unica lenza di bordo e anche lui li vide scomparire. Al largo c’era un branco di delfini che emergevano sniffando. – Di loro – disse Falco de Falconibus, rivolto a Parisot – avevano avuto paura e non di quel fucile a pompa!

Parisot era assai bravo a miniaturizzare libri, fino all’ultimo Edrisi che gli era costato una fortuna, ma che l’aveva reso ricco per sempre. Aveva avuto la fortuna di trovare a Zurigo il portulano più antico al mondo dell’arabo geografo, cartografo alla corte di re Federico e sotto i caratteri latini era riuscito a decrittare gli originali arabi. Andò a cascare in un mare di petrodollari!
Anche se fortunato, Parisot non era riuscito a venir fuori dal mare sputando calamaretti. Dopo ogni battuta alla grotta dello Spinarello, rimandava la cernia a tavola a un nuovo giorno e alla successiva battuta di caccia. Falco de Falconibus lo sfotteva dall’alto del suo palmarès di tonnacchi e occhiate. D’altronde, lui editore piccolo, che su quel piano poco aveva da competere col resto della compagnia, così aveva risposto al Bengaudi piemontese che, al primo incontro, facendogli gli esami, gli aveva chiesto a bruciapelo: - Che fatturato ? – Gli avesse chiesto quanti libri in catalogo, avrebbe potuto rispondere che erano una cinquantina ! Ma, sorbole, lui i milioni, cinquanta all’anno, a quell’epoca ancora non arrivava a fatturarli.
Falco de Falconibus, quella volta dell’interrogatorio, aveva risposto a Bengaudi sbattendogli sul piatto del fair play un cesto di totani imperiali.

Parisot con la sua cernia mancata faceva tenerezza. Lustrava l’arpione, provava e riprovava il fucile a pompa: colpa di quell’anemone di mare vorticante che gli aveva nascosto l’ultima cernia colla quale era venuto a tu per tu sulla tana. Parisot era rosso di capelli che lunghi gli vorticavano come ventagli di gorgonia sulla fronte. Aveva la pelle carica di efelidi, ereditati dalla madre parigina; facilmente si confondeva in mare con quella pigmentata della cernia e lui candidamente affermava che le remore lo accostavano alle mura dei fianchi attaccandoglisi come ventose ai piedi pinnati in direzione dell’imprendibile preda!
La vita, all’angolo degli editori, trascorreva secondo il solito tran tran. Ully provvedeva ai rifornimenti, di solito carne e pane. Bisognava sopravvivere di pesce alla timpa di Lazzaro. Per questo ogni membro della comunità viveva a mare e se non sapeva pescare ci nuotava o prendeva il sole. L’acqua tirata dalla cisterna veniva lasciata, durante il giorno, nei tegami al sole. A sera il primo arrivato la trovava bollente sulla pelle, l’ultimo- quasi sempre Falco de Falconibus- ancora tiepida per l’ultima doccia serale.
Le abitazioni erano assai modeste. La casa eoliana era attraversata da un corridoio sul quale davano linde le stanze, cellette dipinte a calce. Stanze e finestre si aprivano sul portico oliano, un pergolato che poggiava le assi di sostegno sulle epulere anch’esse tirate a calce.

L’accoglienza era proporzionata al grado di importanza in editoria per gli editori o al grado della notorietà tra il pubblico dei lettori per gli editori. Regole rigide alle quali, all’avvento del critico dottor Tracina, che personalmente selezionava gli invitati e numerava le celle, non era possibile sfuggire. A nulla infatti era valso, l’anno in cui tutti gli autori invitati erano tutti scrittori siciliani, che il siculo poeta Ibiscus, alla prima cena a base di zuppa di cernia e delle solite sette tracine, avesse servito per primo il dottor Tracina offrendogli la tracina più grossa. Il poeta Ibiscus ugualmente aveva avuto la celletta più piccola e assolata, un materasso di foglie e un tegame, per la raccolta dell’acqua, senza manico. A tavola qualcuno disse:- Tracina odia i poeti !- E Tracina, togliendosi una lisca tra i baffi, parò cordialmente il colpo:- I critici passano, i poeti restano!-
Tracina era inflessibile e non cedeva neanche davanti alla tentazione di chi, alla rituale tavolata a base di zuppa di pesce, tentava di amicarselo offrendogli la scodella più grande.
Ully, quando non c’era pesce, era accolto come una liberazione da quell’unica alternativa di prosciutti spolpati fino all’osso e di salumi sgrassati dalle ombre assolate dell’isola.
Giuseppe Alibrandi, scrittore
- Che strana complicità quella di Ully con Willy!- esclamava Bengaudi che aveva assoldato il bordonaro ginevrino per il trasporto di un grosso fuoribordo alla marina di Lazzaro. Ully, per risparmiare l’asino se n’era venuto a torso nudo caricandosi, tutto caracollante sotto il peso, il grosso motore sulle spalle, sulle quali faceva da cuscinetto un sacco di iuta. Risparmiava l’asino o temeva per eventuali danni al motore ? Willy a mare non scese, restò a masticare cardi in qualche orto di Ginostra dalle parti della pensione Pertusa. Bengaudi, ammirato, propose il ginevrino per dei nuovi versi:” Ully, il motore e l’asino”. La sua trovata non ebbe un seguito tra i poeti della colonia, avanzandogliene ancora a tutti dall’infanzia di quei versi del “ Padre, il figlio e l’asino”.

A rompere l’aria di smorta clausura di quei pomeriggi passati sotto i portici eoliani, cui spesso vi costringeva il capriccioso maestrale del dopo ferragosto, ci pensava l’arrivo del grande Gatsby, imprenditore architetto della costa sbarcato al club di Ginostra col suo entourage di marocchini cuochi massaggiatori. A parte i suoi strani riti che iniziavano con la ginnastica all’alba che tutti spiavano scendendo a mare, nessuno della comunità degli scrittori era riuscito a carpire il segreto di quello sbarco da gran Gatsby in quell’angolo di Ginostra. O meglio si vedeva che non scendeva a mare e che, a qualsiasi ora del giorno, tranne che per quella dei massaggi che precedeva di poco l’ora in cui la comunità imboccava i viottoli di lava per il mare, se ne stava sulla sua sedia regista a impartire ordini alla servitù.

- Studia i venti e i suoni!- commentavano imbarazzati all’angolo degli scrittori. L’architetto affascinato dalle grandi sculture rupestri come elementi del paesaggio aveva scolpito la valle di Tusa, tra Messina e Palermo, dove i venti tiravano suoni arcani e misteriosi da quelle strane macchine scolpite sulla roccia o sulla sabbia del mare.
La comunità letteraria minimamente distratta dalla presenza del grande Gatsby, al quale aveva concesso quell’iniziale attenzione tradottasi nell’adattamento allo strano personaggio protagonista del romanzo inglese, nei pomeriggi sciroccosi usciva da quella calma stracca impazzando in ogni genere di disputa letteraria. E fu rissa quella volta che il clan degli autori siciliani discusse del possibile falso cratere siceliota del IV° secolo avanti Cristo, il famoso venditore di tonno sul cui bancone le penne di quasi tutti i presenti si erano esercitate.
Che impostura quella del malacologo barone Mandralisca, beffatosi di generazioni di ignoti visitatori tra le sue mura patrizie sotto il complice sorriso dell’Ignoto marinaio!

- Troppa roba anonima!- commentò Giroferro Paperese e Nerino Aliberti, che aveva fatto da involontario detonatore per quella disputa, tornava a citare la fonte francese:- Egypte Orient et Grece” dell’editore Bordace de Paris.
Parisot ricordava d’averlo visto in mano alla figlia allieva alla scuola secondaria. – Della collezione “Histoire” diretta da Louis Girare, professore alla Sorbona – precisò l’Aliberti.
- Come se i tipografi parigini siano esenti dai loro bravi refusi!- intervenne Tracina.
- Certo- sfottente Giroferro- il tipografo parigino a corto di piombi anziché Kephalù, compose Ceylon!-
- Diamine! Che ci fa un cratere siceliota del quarto secolo avanti Cristo nell’isola di Ceylon? E’ evidente il refuso! Replicò Tracina.
- Ma se fosse vero, avremmo due crateri sicelioti del quarto secolo avanti Cristo ad opera di un anonimo falsario, di cui non sappiamo qual è l’originale! Aggiunse Nerino sul filo di quella lunga boutade che a qualcuno cominciava davvero a bruciare, se non altro per averla appresa da aspiranti scrittori senza le credenziali della carta stampata.

- Siamo un popolo levantino!- A svelenire la comunità percossa da repentine scariche di adrenalina, intervenne Falco de Falconibus:- Tutti i marinati, abitanti della costa, da dove la Fitzcarraldo partiva per i suoi viaggi alle isole, erano levantini: cavalieri e marinai. Il cavaliere don Tano si sentiva il dio della terra e lo chiamavano “ U cavalieri robavineddi”. Quando ne aveva bisogno chiudeva il passaggio ai carretti e allargava i suoi magazzini stipandoli di pentole. Il marinaio “ Zu Cosimino” si sentiva il dio del mare e a bordo del suo imprendibile “sciccazzu”, una minaita a sei remi, rubava a tutti il tempo della cala. Le altre barche gli facevano la spiata. Dove arrivava l’imprendibile “sciccazzu” c’era pesce per tutti e al rientro dell’invisibile “ sciccazzu” tutti correvano a prendere i rimasugli. Il cavaliere don Tano costruiva pastifici intitolati “ a lu Sabbaturi Bamminu” e a “ lu Sabbaturi Patri” e siccome non gli bastavano gli stenditoi dei suoi pastifici, stendeva i vermicelli alle incannate, all’entrata e all’uscita del paese.

A ogni primavera alla marina di Patti sbarcava il turco col fez. Don Tano se lo metteva in casa e a tavola facevano i loro affari lasciando spettegolare la servitù che a fine pranzo raccoglieva le ossa che l’ospite turco buttava a terra. Usanza incresciosa che il cavaliere don Tano, nonostante i mugugni della servitù, tollerava per amore degli affari. I marinati contagiati da quella frequentazione aspiravano a vivere come il turco che, si diceva, avesse tante donne, pronti a imbarcarsi per la Barberia a vendere l’anima al profeta Maometto in cambio di un’altra vita. Zio Cosimino, che era più levantino di tutti, fabbricava “pillole”. Durante l’ultima guerra aveva messo da parte mine inglesi e polveri di obici inesplosi e con questi residuati bellici fabbricava le sue “pillole” che usava a mare aperto per catturare i banchi di pesce. Il giorno che i marinoti erano andati alla festa di Monciove fecero ferro e fuoco alla Pietra di Patti. E che è e che fu, si chiedevano i fedeli sulla spiaggia, dove accompagnavano il santo nella processione a mare. Quando i marinai tornarono alle loro case trovarono i vetri infranti alle finestre: era stato il re del mare, zu Cosimino, con le sue pillole in polvere.-
Falco de Falconibus fu complimentato da tutti e le sue storie sulla levantinità dei siciliani apparvero degne della miglior tradizione dell’Almanacco di cultura popolare. Ogni diatriba era accantonata o meglio rinviata perché i temi ancora da trattare erano uno più esplosivo dell’altro.

La morsa dello scirocco non allentava e l’aria irrespirabile agglutinava la saliva in gola e non c’era di che trarre conforto dalle mestolate d’acqua calda che evaporava sulla pelle appiccicosa. In quei pochi giorni da passare sull’isola bisognava ancora discutere di sicilitudine e della letteratura dell’ultima leva di scrittori siciliani acquisiti al mercato letterario. Bisognava pure ricordare l’ultimo scrittore scomparso. Il carnet di Tracina non era nient’affatto vuoto.
Gli imperturbabili editori, tornati a crogiolarsi al sole sugli scogli, apparentemente distratti dalle beghe interne al clan dei siciliani, aspettavano la celebrazione del gran premio letterario, lasciando a Tracina i veleni delle interminabili discussioni. Toccò proprio a lui, al lume della grossa lampada alimentata dalla bombola a gas, ricordare Nino Pino la cui morte era avvenuta nella solitudine dei giorni di ferragosto. A Ginostra la notizia funerea giunse via mare con l’espresso del Caronte viareggino che sotto costa inseguiva i pali del vecchio telegrafo borbonico ormai senza fili.

“ Vuota è la tomba delle sue spoglie donate alla scienza da quest’uomo il cui amore fu incontenibile e la grandezza pari alla solitudine nella quale discretamente si votò per rientrare nel grembo del creato.”
Del poeta anarchico di Barcellona, Tracina ricordò la vena felice di quella sua poesia d’amor leggiadro di cui è sparso “ Mminuzzagghi”, premio Viareggio. Parlò della straordinaria capacità dell’uomo di trasformare in vincolo d’amicizia ogni sodalizio artistico: da Pugliatti a Joppolo, ai Quasimodo, Salvatore e Rosa, Demetrio e la corte degli amici inglesi del Swansea dov’era stato a tenere lezioni sulla poesia dialettale.

Tutte vite quelle dei Quasimodo trapiantate al nord ma che continuavano a respirare al sud tra cavalli normanni, ulivi saraceni e cupi telamoni vegliati dal canto dei grilli prossimi alle stazioni sperdute dell’introversa Sicilia dove i padri vegliavano l’arrivo di ansimanti treni che affettavano le stoppie della brughiera. Un’isola irraggiungibile che Pino fece conoscere durante il suo soggiorno inglese per un seminario su poesia e dialetti e verso la quale non pareva vero allo stuolo di amici inglesi di mettere le ali.
“ Carissimo Nino Pino, mi ha fatto molto piacere ricevere la tua lettera, non vedo l’ora di ricevere il tuo libro! Grazie mille in anticipo. Ho dato il tuo messaggio a Joseph e Gip. Erano contentissimi e Gip mi ha chiesto subito il tuo indirizzo perché lo aveva smarrito, così glielo ho dato. Mi piacerebbe davvero moltissimo venire a trovarti in Sicilia, non mi viene in mente niente che desidererei di più. Forse potrò permettermi il viaggio durante le vacanze estive, e allora ? Arriverò in un lampo! Il fatto è che non so mai in anticipo quanto guadagnerò e così non oso fare piani. Grazie ancora per avermi invitato! Non me ne dimenticherò e…. chi può dirlo, forse un giorno mi troverai davanti alla tua porta! Naturalmente ti avvertirei prima. Sarebbe bellissimo rivederti ed inoltre ho sempre desiderato vedere la Sicilia.

Il mio ragazzo è molto simpatico, sono sicuro che lo sarebbe anche a te. E’ un pilota in pensione, è molto intelligente e gentile. Passiamo molto tempo su un idrovolante, un Gyspy moth su galleggianti. Purtroppo ha dei disturbi al cuore, niente di grave, e così non può volare senza un altro pilota. Altrimenti saremmo venuti a trovarti in Sicilia su un piccolo aereo! Per questa ragione posso andare sull’idrovolante con lui solo se c’è un altro pilota. A lui dispiace molto. Vorrei sapere cosa si può fare per aiutare le persone depresse. Conosco molte persone che hanno forti attacchi di depressione. Ho passato anch’io un periodo in cui ero depressa, circa sei mesi, e quindi so cosa significa. Comunque, caro Nino Pino, spero proprio di vederti una di queste estati, sarebbe bellissimo! E… grazie ancora per la tua bellissima lettera. Ti abbraccio con affetto. Miranda Mackintosch.”

L’uditorio era commosso e, insaziabile, disposto a nuove confidenze che Tracina, raccomandando discrezione, si apprestava a fare sul sodalizio del Pino al tempo della militanza nel partito e dell’amicizia con Ambrogio Donini, il curatore delle opere di Antonio Gramsci.
Gramsci, in carcere a Turi, venne a sapere dei Repaci, anzi di Leonida Repaci che aveva chiesto la grazia a Mussolini per fare piacere alla madre e Gramsci che restò a marcire in carcere assieme a quell’altro siciliano di Naso, Francesco Lo Sardo, ostinato a lasciare le ossa al fascismo,commentò:- Come se gli altri compagni fossero figli di buttana!”. Donini censurò il maestro sardo: Così vollero in alto e fu fatto.

Quell’aneddoto scatenò l’ennesima contesa letteraria tra gli aspiranti scrittori, ciascuno interprete della sicilitudine e delle cose di Sicilia, tutti figli di una Madre Terra, ventre partoriente di fantasie e fantasticherie.
- Il romanzo in Sicilia è fermo al Gattopardo- disse Nerino.
- La Sicilia è pretesto letterario, letteratura del buon ricordo: tonnare e tonnaroti, saline e salinari, zolfare e zolfatari, latifondo e braccianti. Nessuna storia al presente! – intervenne il poeta siculo arabo Ibiscus.
- Dobbiamo fare l’inventario di quello che eravamo per capire chi siamo!- disse Giroferro
- Un’isola!- Fu provocazione. – Un continente !- Prese la parola Parisot, che le opere d’arte amava vedersele nelle pagine dei libri miniaturizzati. Parisot era un cultore dell’arte che ai giri turistici dell’estate preferiva un’isola immota sull’acque azzurre.

- Ricordo che anni addietro le agenzie di viaggio mostravano la scritta:” Affrettatevi a visitare l’Italia prima che gli Italiani la distruggano!” Io vorrei aggiungere: come i siciliani hanno già distrutto la Sicilia!” - ammonì Parisot.
- Quello che è rimasto della nostra arte in Sicilia è paragonabile a un retablo barocco insediato in una chiesa gotica dall’impianto romanico!- Nerino seminò quelle parole apodittiche tentando di ricondurre la discussione al suo intento originario che era quello di far conoscere al manipolo di editori, presenti sull’isola, di un altro modo di raccontare la Sicilia come del resto sarebbe apparso dai titoli del concorso letterario per il quale bisognava attenersi a dare un titolo da svolgere in una cartella di venti righe, servendosi dell’unica Olivetti portatile di proprietà di Falco de Falconibus.

La giuria segnalò una terna di titoli: La bella Paliolica, Tre donne per un uomo e Maria Marticana. Quest’ultima, fata mavara eoliana, metteva le ali come colomba che al levarsi fa pà pà pà fermandosi nell’aria a fare lo Spirito Santo e poi s’invola radente sull’acque con uno zi zi zi di ali sbattute come fosse la vela di un bastimento tesa nel vento. Maria Marticana andava a caccia di pane e, all’ora dell’infornata nelle isole, si calava a Spirito Santo dentro alle cupole bianche di mattoni dal caldo rosato. Tracciava una croce sollevando la pellicola di farina lievitata che stava per diventare crosta di pane fino a farne, di aggiunta in aggiunta, una pagnotta intera per il figlio che di inedia era castigato a morire dal padre orco cattivo.
Il pubblico volle premiare “ Lettera a Nino Pino” e segnalò d’applausi Maria Marticana. Si confermava, secondo che disse Tracina, l’origine popolare di ogni vera letteratura.

- Molti dei nostri scrittori siciliani- disse il critico- si sono divisi l’isola geograficamente, ognuno assegnandosi le storie da raccontare. - Nerino lo corresse:- Noi siciliani sparsi ai quattro venti scriviamo le stesse storie come se tra noi ci fosse un filo diretto. Abbiamo un fondo mediterraneo in comune. A volte sembra che ci copiamo, ma non è così. Abbiamo l’ispirazione in comune, ma la sensibilità del punto di vista è diversa. Prendi il tema del “ muccaturi di terra”, la lotta dei siciliani per un fazzoletto di terra..-
- Hai scelto tra la letteratura di provocazione!- interruppe Tracina, molto attento al discorso di Nerino.
- Vorresti dire di frustrazione…vero, Tracina ? Nondimeno dicevo di questo filo diretto che tiene uniti noi scrittori siciliani nel racconto della terra da Verga a Stazzone, passando per Consolo. Tutti e tre raccontano la stessa storia del fazzoletto di terra ambientata in aree geograficamente diverse.

- Affini!- corresse Tracina. – Ma sempre geograficamente diverse- riprese Nerino senza accondiscendere. – “ La libertà” è ambientata a Bronte nella ducea di Nelson, le altre due storie ad Alcara li Fusi, nel mandamento del Val Demone.- Stazzone? – Carneade, chi è costui? direste voi- avrebbe gongolato a quell’aggancio a Verga e a Consolo, occupato a scrivere la vita degli ultimi grifoni sterminati da bocconi assassini in un paese dei Nebrodi, dove ancora il circolo dei civili si chiama “ Casino dei nobili”. La storia è la stessa – proseguì Nerino- Verga e Consolo cadono nell’ambiguità del codice borghese: quel vedere e raccontare le cose attraverso il nano o il collezionista malacologo barone di Mandralisca che vede i fatti durante una sua spedizione malacologica e a casa disserta del giusto e dell’ingiusto a proposito di quello scanna scanna. Stazzone adotta un codice che non è borghese, ma popolare, dell’epizzazione tolto di bocca alla gente del suo paese!-

- Suggestivo!- disse Tracina completamente svelenito- ma vero! Anche Sciascia si indigna di quella storia sciagurata del nano nella sua “ Corda pazza”.-
- Ci vogliono storie senza mediazioni culturali: prive dell’orpello del parlare borghese! Nerino, a te l’ultima e nuova storia garibaldina! – vociò Giroferro.
L’indomani l’accampamento di editori e scrittori si sciolse dileguandosi al mattino presto.
- Sarà un’altra storia decadente, come quella di Tomasi – commentava Tracina sul gozzo espresso Ginostra-Stromboli. Non era lo zì zì zì delle ali di Maria Marticana, ma il pà pà pà del mercury che il Caronte viareggino agguantava alla guida seduto sulle mura di poppa.
L’isola immota sull’acque blu, sgombera dei suoi ospiti estivi, tornava al tran tran di Ully e Willy che continuavano a disputarsi sul piano davanti alla pensione di donna Maria Petrusa le sigarette Nazionali ormai perdutamente contagiati dalle dispute letterarie all’angolo degli scrittori.

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