Festa della Liberazione: la filastrocca del 25 aprile di Mimmo Mòllica

Festa della Liberazione: la filastrocca del 25 aprile di Mimmo Mòllica 25/04/2024 - La «Filastrocca del 25 aprile» di Mimmo Mòllica ricorda la liberazione dell'Italia dalla dittatura fascista e dall'occupazione nazista. Una data importante per adulti e bambini, da non dimenticare per dire 'no' ai totalitarismi e a tutte le guerre. Sempre e in  ogni luogo, «meglio fiori che armi». «Filastrocca del 25 aprile» di Mimmo Mòllica

PSICOSI DELLE 4H E 48’, MICAELA ESDRA AL SAN FRANCESCO DI PATTI IN CERCA DEL SENSO DELLA VITA

Patti (Me), 01/08/2015 – Se c’è una cosa che un aspirante suicida non si augura è di morire. L’aspirante suicida aspira forse ad attirare su di sé l’attenzione di... se stesso e degli altri? E’ un essere dolente, piombato nel baratro di un male contro il quale sente non esistano medicine adatte ed efficaci? E’ un essere disperato che non crede esistano medicine per riuscire ad afferrare il senso della vita? E mentre si trascina in tale stato di prostrazione e abbandono, si augura che le cose vadano bene, che non ci siano ulteriori intoppi, ripromettendosi: “Se tutto va bene a Pasqua mi ammazzo” o, più precisamente “alle 4h e 48 minuti mi ammazzo”.

Il suicidio come alterativa alla solitudine, la peggiore delle sventure. La peggiore delle sventure perché ci lascia soli con noi stessi, con la persona più sbagliata con cui ritrovarsi a tu per tu (se stessi), chiusi in un assurdo e inestricabile groviglio di pensieri, di domande e di mancate risposte; il rito sacro e pagano allo stesso tempo dell’autocommiserazione, del senso di colpa (da dare agli altri), della ricerca spasmodica e costante di un genitore cui addossare la straziante colpa del nostro passato (del presente e possibilmente del futuro), dei nostri inafferrati e mancati sensi da dare alla vita:
“Visse la vita da vero uomo: diede sempre la colpa alla moglie!”.
E se il suicidio è il solo modo a portata di mano per non avere più a che fare con noi stessi, meglio (forse) apparecchiare in piazza il proprio letto e là restare soli… con il pubblico. Che orrore!
Psicosi delle 4h e 48’ di Sarah Kane è andato in scena ieri sera, venerdì 31 luglio, al Chiostro San Francesco di Patti, protagonista una superlativa Micaela Esdra, Premio Flaiano 1995 quale migliore interprete femminile.
Micaela Esdra, attrice e doppiatrice tra le più conosciute (ed ascoltate), con una carriera che la vede protagonista accanto a registi come Giorgio Strehler, che l'ha diretta ne Il campiello di Carlo Goldoni, e Luchino Visconti, per un'edizione de Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, e Walter Pagliaro, suo marito.
Psicosi delle 4h e 48’ è la piece  di Sarah Kane, autrice britannica morta suicida all’età di 28 anni, ultimo lavoro scritto dalla Kane prima di suicidarsi. Un lungo e tormentato monologo, ricco di tensione esistenziale, malato più della malattia e teso come un arco la cui freccia non verrà mai scoccata, nemmeno alla fine, quando la protagonista chiede vengano accostate le tende e si copre col bianco lenzuolo che la lascerà esanime ma seria (?), compiuta (?) nel suo proposito, a volere smentire che “se c’è una cosa che un aspirante suicida non si augura è di morire”?

Verrebbe da tirare in ballo, con una battuta (di cattivo gusto?), Uno su mille (ce la fa), canzone del 1985 interpretata da Gianni Morandi scritta da Franco Migliacci e Roberto Fia.

Il grido di dolore portato sulla scena del San Francesco di Patti è reso con bravura assoluta e precisione ‘cronometrica’ da una straordinaria Micaela Esdra, verosimile esponente (sulla scena) del male oscuro, del male di vivere, cercatrice disperata del senso della vita; nemmeno tanto folle da potersi abbandonare alla follia e con essa giacere.

Che guaio nascere nell'era sbagliata, nell’epoca della lotta al dolore che porta a volere progettare il suicidio, a convivere col rovello del suicidio. Senza nemmeno sapere se è di aiuto che si ha bisogno, di un pronto soccorso o di un amore. Senza rendersi conto lucidamente che perdere l’amore non è la perdita dell’amato ma dell’amore dentro di sé, dell’amore che si ritiene debba essere in noi come un organo, come la serotonina, come l’emoglobina, e che (però) al pari di questi elementi a volte manca del tutto o se ne abbassa il livello. E nessun esame clinico lo dirà mai, nessun esame clinico indicherà mai carenza di amore e di beatitudine. Che guaio il servizio sanitario…

L'allestimento e la regia di Walter Pagliaro rendono drammaticamente 'bene' la disastrosa idea della solitudine da borsetta, della disperazione da viaggio, dell’abbandono ai respiri e alla costenazione. E la bravura della protagonista, sola sulla scena come nella piece, sono la cifra della messa in scena. Il marchio di fabbrica. Molti applausi. Molti.

m.m.

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