Casteldaccia: la morte di 5 operai lascia sgomenti, ennesimo incidente sul lavoro grave e inaccettabile

Incidente sul lavoro a Casteldaccia: cinque lavoratori perdono la vita e un sesto è in gravi condizioni. La Cisal indice per domani, martedì 7 maggio, uno sciopero generale di 4 ore nel settore privato, a partire dall’inizio del turno di lavoro, "mentre dalle 9 terremo un sit-in di fronte alla Prefettura di Palermo”.   Palermo, 6 maggio 2024 – "L'incidente sul lavoro che a Casteldaccia, in provincia di Palermo, ha portato alla morte di cinque operai e al ferimento di un sesto, ci lascia sgomenti. Esprimiamo cordoglio e vicinanza alle famiglie dei lavoratori coinvolti e chiediamo che si accertino al più presto le cause di questo ennesimo incidente sul lavoro, grave e inaccettabile. La sicurezza sul lavoro è un'emergenza nazionale e come tale va affrontata a ogni livello, coinvolgendo sindacati, imprese e istituzioni". Lo dicono Giuseppe Badagliacca e Daniele Ciulla di Federerenergia Cisal in merito all'incidente sul lavoro avvenuto a Castaldaccia, nel Palermit

NEBRODI E DINTORNI, UN VIAGGIO SOLITARIO TRA LAGHI, SUINI NERI E... NON SOLO ARIDITA'

Trinacriablog – Teoria e prassi del viaggio in generale e di quello siculo in particolare

By md
Dopo avere percorso oltre mille chilometri di strade secondarie interne alla Sicilia, avere attraversato i Peloritani e i Nebrodi e lambito le Madonie, essere andato alla ricerca del cuore dell’isola (una sorta di centro del suo centro); dopo avere visitato decine di città (molte delle quali piccole e poco note, e forse anche per questo le più belle, poste quasi sempre sopra rocamboleschi colli o poggi), avere ammirato le facciate di centinaia di chiese e palazzate di ogni epoca, veduto cupi dipinti, lignee agonie, gaginiani stucchi, cadenti balconi barocchi; calcato pietre e resti millenari, essermi perso lungo le sfuggenti linee delle colline divorate dal sole o ristorato all’ombra di fitte foreste di eucalipti, di faggi o di pinete… – ebbene, che cosa è rimasto di tutto ciò?
Il viaggio mostra sempre impietoso il lato inesauribile delle cose da attraversare, vedere, conoscere, in qualche raro caso da far proprie – così stridente con la sua natura transeunte ed effimera. Il viaggiatore reca sulla propria fronte il segno del rinvio e della provvisorietà, con quell’impronunciato ma visibile “tanto tornerò” in punta di lingua – anche se sa che non sempre sarà vero o possibile.
Del resto, come si possono visitare integralmente zone, paesi o città che contengono (o che sono contenuti in) luoghi naturali bellissimi, oggetti artistici innumerevoli e incastrati tra di loro come matrioske, spesso pregevoli quando non straordinari? Si può solo restare annichiliti dallo splendore e, storditi, ripetere quell’inutile ritornello: “prima o poi tornerò” – con la cauta aggiunta di un forse (come se tornando anche mille volte cambiasse davvero qualcosa!).
C’è poi, al fondo, una sorta di pericolosa Begierde collezionistica: la brama appunto, l’ansia, il desiderio incontrollabili di voler vedere tutto in lungo e in largo. Non si sta parlando qui del “dovere del turista” di visitare il visitabile, o meglio quel visitabile impacchettato e offerto sui vassoi del “tutto compreso”, cosa peraltro affatto incompatibile con ciò che attiene al viaggio in sé – ma della follia di volersi appropriare visivamente, concettualmente ed anche “fisicamente” di tutte le cose, dunque in primis di ciò che è bello e alto e profondo in somma misura (tralasciando qui il discorso su ciò che conferisce bellezza ed altezza e profondità a qualcosa).
Altra follia sarebbe quella di seguire più o meno pedissequamente i consigli di viaggio delle guide turistiche (di nuovo la bestemmia della parola “turismo” che si interpone) – oltre all’oggettiva impossibilità e (nondimeno) inutilità di fagocitare migliaia di informazioni, come se già non bastasse lo sforzo visivo e contemplativo. Certo, a meno che non si è degli storici dell’arte (od anche degli psicopatici). A tal proposito, trovo piuttosto fastidioso seguire i percorsi consigliati (ma sarebbe meglio dire imposti) dalle guide: vai qui, subito dopo lì, poi gira a destra, guarda in su, prendi la discesa, infilati nel vicolo… – ma dove vai, cretino? Ordini perentori cui contrapporre un sano anarchismo dell’incontro casuale. Molto meglio gettare il voluminoso tomo nel primo cestino, entrare in città da un qualsiasi lato o porta o strada o varco e farsi condurre dal caso, dall’istinto o magari dalle parole del primo abitante incontrato. Si “perderà” forse più tempo, si camminerà molto di più e si correrà il rischio di “perdersi” mille volte, ma ne sarà valsa la pena quando si scoprirà che la città avrà ceduto piano piano i suoi tesori, secondo piani e prospettive del tutto inaspettati, sempre cangianti ad ogni minimo spostamento del corpo e dello sguardo – un modificarsi sincronizzato degli stati d’animo da una parte, dei profili e delle forme dall’altra. Arrivati in cima, grondanti di sudore, si urlerà silenziosamente di gioia…
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Il viaggio perfetto è il viaggio solitario, l’unico a consentire l’adesione integrale tra il nostro apparato percettivo (occhi-cervello-cuore) e i luoghi e i paesaggi che via via si aprono e si stagliano dinanzi a noi. L’unico modo per poter scegliere in totale libertà e autonomia i ritmi e i tempi del movimento, le mete, le soste, le deviazioni e digressioni, i ripassi e i ritorni, le pause, gli abbandoni contemplativi… Si tratta cioè di sacrificare l’elemento prezioso e imprescindibile della condivisione in favore della purezza e integralità dell’esperire. Ci sono due stratagemmi per ovviare agli eventuali inconvenienti della solitudine: parlare da soli e commentare ad alta voce (come ho fatto io abbondantemente in quei giorni) e poi condividere post festum, che è quel che sto facendo ora. Resta il fatto che tale stato comporta anche la conseguenza di dover affrontare incerti, imprevisti e, talvolta (si spera raramente), pericoli in modo solitario, senza il conforto dell’amico o del compagno, senza il balsamo della solidarietà. Ma del resto non è così anche nella vita? Purché se ne abbia consapevolezza…
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Camminando per i vicoli di Chiaramonte Gulfi (una di quelle città poco note di cui sopra) ho poi pensato ad un’altra necessaria stranezza indotta dal viaggio: l’intersezione del viaggiatore con i segmenti di innumerevoli altre vite, occhi, sguardi, voci… un solo attimo, un fugace incontro, una casuale congiuntura, l’entrare e l’uscire nella sfera di un’altra persona come lo sbattere di una palpebra, l’immergersi per un tempo infinitamente piccolo nello scorrere della vita di qualcun altro. Ci potrà anche essere un’assuefazione turistica da parte di chi abita le cosiddette città d’arte e che quindi subisce quotidianamente l’ossessiva visita degli altri (turisti o viaggiatori che siano, anche se in teoria la differenza dovrebbe essere ben visibile), eppure in me sortisce uno strano stupore che non so caratterizzare fino in fondo: com’è possibile che io incroci qualcun altro, lo sfiori appena, ne colga un’espressione – al di là delle consuete facce marmoree o sospese – ne avverta una parola, un palpito e che tutto si risolva in un reciproco scivolarsi addosso, come se si trattasse di superfici che nemmeno si toccano, di “monadi incomunicanti”, atomi o palle da biliardo che schizzano via impazzite?
Che poi, a pensarci bene, non è quello che succede quasi ogni giorno?
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Un’ultima nota, prima di passare dalla teoria alla prassi, sulla scelta del mezzo. Premesso che ogni viaggio ha il suo ritmo e dunque il suo mezzo, l’ideale sarebbe sempre quello del cammino: il pellegrinaggio è la metafora perfetta della vita, e deve essere fatto innanzitutto con i propri piedi. Ciò è naturalmente piuttosto utopico (nonostante il grande storico Toynbee abbia percorso a piedi in lungo e in largo l’intera Grecia: ma lui poteva permetterselo), anche perché la condizione essenziale è quella del darsi tempo, al limite tutto il tempo, ma allora il viaggio verrebbe a coincidere con la vita stessa, e da metafora diventerebbe la cosa stessa. Anche la bicicletta non sarebbe male (per quanto, passando così al lato pratico, l’interno della Sicilia sia un saliscendi piuttosto faticoso e talvolta vertiginoso). Trovo però che un buon compromesso potrebbe essere quello dell’uso di un mezzo ormai “sorpassato”, ma dotato di grande fascino: la corriera, che in genere ha il vantaggio di partire molto presto e di collegare tra di loro parecchi paesi talvolta sperduti. Anche il treno dovrebbe essere riabilitato, e di molto: ci sono alcuni percorsi (e non solo sulla costa) di enorme fascino – basti pensare a quell’incredibile linea ferroviaria che da Siracusa si perde letteralmente nel mezzo della Sicilia attraversando il Val di Noto, tutte le città barocche del ragusano, toccando poi la costa tra Gela e Licata per ributtarsi infine all’interno in direzione di Caltanissetta-Xirbi (mi son sempre chiesto a cosa alluda quel nome dal chiaro sapore arabo). Se non odiassi così tanto il vociante e scomposto turismo di massa, lo proporrei per un ghiotto itinerario organizzato, un vero business!
Ma siccome tra l’idea e la realtà c’è sempre un abisso, ho optato per una comoda automobile presa a noleggio.
Infine, ultimi consigli spiccioli: partire sempre all’alba, lasciar fuori l’auto dai centri e camminare a piedi senza mai risparmiarsi, tenere presente che i pochi edifici visitabili chiudono quasi sempre tra mezzogiorno e le cinque del pomeriggio, dotarsi di stoica pazienza (al limite del fatalismo) per quanto concerne la segnaletica (sia stradale che dei centri storici) – tanto vi perderete lo stesso… Comunque un ottimo succedaneo della inevitabile guida può essere senz’altro lo splendido libro di Matteo Collura, riedito di recente, opportunamente intitolato Sicilia sconosciuta.
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Ecco ora, brevemente, la cronaca e il percorso del mio viaggio solitario nel cuore della Sicilia di questa estate 2009 (chi vorrà potrà anche leggerlo come un suggerimento, anche se reputo che il vero viaggio sia una scelta libera, autonoma e consapevole del viaggiatore, che dovrà così costruirsi ed “inventare” il proprio percorso).
Il viaggio comincia con una lunga camminata in cima al Monte Soro (la montagna più alta della Sicilia, se non erro, fatta naturalmente eccezione per la muntagna per antonomasia), oltre 1800 metri nel mezzo del parco dei Nebrodi, alla ricerca di alcuni laghi, dei suini neri e dei cavalli sanfratellani in mezzo a folte quanto inaspettate faggete (chi pensa che la Sicilia sia solo aridità e sole a picco su colline giallo oro venga a farsi un giro sui Nebrodi o sulle Madonie…).
La seconda tappa tende a scavalcare i monti Peloritani all’altezza di Novara di Sicilia, per raggiungere ed attraversare alcune pinete e poi scendere in direzione di Francavilla di Sicilia (non avevo informazioni sulla facilità e percorribilità della strada, ma mi è andata bene). La meta è a muntagna, l’Etna o Mongibello che dir si voglia, quell’incredibile mostro che compare magicamente all’improvviso in tutta la parte nord-orientale e centrale dell’isola ogni qual volta ci si affacci a qualche passo o sella o portella. Le gole dell’Alcantara restano pur sempre una possibile digressione/distrazione dalla meta principale – ci vado ma poi cambio idea: troppa folla. Punto verso Castiglione di Sicilia (che merita una visita) e poi arrivo a Linguaglossa per imboccare la strada eloquentemente denominata Mareneve. Vengo così condotto verso secolari pinete fino a Piano Provenzana, circa 2000 metri di altezza, dove l’ultima colata aveva spazzato via tutti gli impianti sciistici. L’esperienza da fare (e che rinvio alla prossima volta) è quella di guadagnare la cima e i crateri più alti a piedi, con un’escursione in gruppo, ma per farlo occorre essere qui presto e avere molte ore a disposizione. Mi accontento di una breve passeggiata in mezzo alla sciara infernale e al nulla: ciò che rende così fertile la terra delle pendici etnee è anche ciò che può risucchiare tutto nel nulla infuocato; a muntagna, un ente squisitamente filosofico che non a caso attirò l’attenzione del filosofo siciliano Empedocle, sembra dire: “ti do, ma sappi che posso toglierti in ogni momento…”
Al ritorno scendo verso Randazzo, un gioiello monumental-medioevale (con pregevolissime architetture aragonesi, sveve e catalane, spesso in nera pietra lavica) sempre risparmiato dalle innumerevoli eruzioni. Peccato che tutto sia un po’ trasandato ed abbandonato, come in molte altre parti della Sicilia… A questo punto ci sono due alternative: risalire verso i Nebrodi e passare da Floresta, un suggestivo e tranquillo paese di montagna, noto per i suoi pascoli, l’aria fina e (ahimé) la carne di qualità, per poi ridiscendere verso il mar Tirreno, oppure puntare ad ovest e tagliare la Sicilia longitudinalmente fino a lambire le Madonie.
Sarà la mia terza tappa, che tralasciando Troina, Capizzi, Cerami (a malincuore, ma mi riservo di visitarle in un prossimo viaggio), parte da Nicosia per poi salire e scendere dalle meravigliose città medioevali di Sperlinga (quella del Quod Siculis placuit sola Sperliga negavit della ducentesca guerra del Vespro), Gangi, Petralia Soprana e Petralia Sottana (curiosamente indicate sui cartelli stradali come “Petralie”, due in una). La meraviglia è spesso anticipata dai nomi, dal fascino che solo il loro suono è già in grado di emanare – Sperlinga, Calascibetta, Morgantina, Scicli… li sento ancora risuonare nella mia bocca, in tutta la loro potenza evocativa (Proust aveva scritto alcune pagine straordinarie in qualche parte della Recherche, non ricordo quale, proprio sulla magia dei nomi dei luoghi…). Tranne Sperlinga, stanno tutte sopra i 1000 metri di altezza, e dunque nell’arrivarci si godono strepitose panoramiche – con qualche puntata in mezzo a sperdute colline, da mettere sempre in conto per possibili deviazioni dovute alle frequentissime frane.
(A tal proposito mi vien da pensare che i cialtroni che stanno cercando di realizzare quella nefandezza sullo stretto dovrebbero prima di tutto dare una risistemata alle strade perennemente franate o alle tratte ferroviarie ottocentesche…).
Una volta giunto al principiare delle Madonie, punto decisamente a sud verso il cuore più interno della Sicilia. Per farlo evito di prendere l’autostrada Palermo-Catania (mai strade principali!) e imbocco la Statale 290, una cinquantina di chilometri di buche, frane e tornanti che fanno sperare (e disperare) il malcapitato che non succeda nulla a lui o alla sua automobile – anche perché, tranne qualche mandria di vacche o gregge di pecore sparse qua e là (talvolta sulla carreggiata), non incontro un umano che sia uno…
Arrivo finalmente e siddiuvole a Calascibetta (“Caltascibetta…Wer Hatte sich aber dieses Anblicks Erfreuen Konnen!” – Ma chi poteva pensare a godere tale spettacolo! – come ebbe a scrivere Goethe, il grande amante della Sicilia), città che già avevo ammirato due volte dalla sommità di Enna, ripromettendomi sempre che la volta successiva sarei invece salito sull’altro colle. Ma per guadagnare la meta finale di questa tappa, devo scendere ancora più a sud e percorrere un breve tratto di strada, costeggiando il lago di Pergusa (che ignoro, visto che mi hanno detto che tutt’attorno vi è stato costruito un circuito per la corsa delle moto), e raggiungere finalmente Piazza Armerina. A questo punto imbocco una strada di campagna, la percorro per una decina di chilometri in mezzo agli eucalipti e cingo una collina fino al luogo sperduto dove mi fermerò per due notti, il bioagriturismo vegetariano “Il Glicine”: quando l’avevo scoperto alcuni mesi fa sembrava fatto apposta per me, vediamo ora se l’aspettativa verrà soddisfatta…
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“Il viaggio (diversamente dal turismo) è l’apertura all’altro e all’ignoto, e quindi alla sorpresa. E’ anche disposizione all’incontro e alla conoscenza. E’ questa la sua bellezza. Tra le tante sorprese di questo viaggio nel cuore della Sicilia (una Sicilia meno battuta, laterale e per lo più trascurata), c’è anche questo luogo con le belle persone che lo animano. Spero che il mio viaggiare, prima o poi, mi riporti qui”.
Questa la nota che ho scritto sul quaderno contenente gli appunti dei visitatori poco prima di ripartire. E’ stato un vero piacere aver conosciuto due persone come Santi e Yvonne, i gestori buddisti (lui siciliano lei inglese) dell’agriturismo, e avere cenato e chiacchierato amabilmente per due sere con loro, dei viaggi in India di lei, delle traversate in moto della Sicilia di lui, di libri e concerti, di cibo e animali, del declino etico, politico e culturale di questa specie di nazione, inevitabilmente di Sicilia, ambiente, cura del territorio…
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Oltrepassando Aidone – passaggio obbligato con altro vertiginoso saliscendi (ma val la pena fermarsi a dare un’occhiata al Museo archeologico) – dopo pochi chilometri si raggiunge una vallata che fin dall’epoca neolitica ha via via ospitato insediamenti e culture piuttosto raffinate, per lo meno fino all’arrivo dei Romani. Da alcuni anni avevo sentito parlare di Morgantina, e mi prende il batticuore quando finalmente la intravvedo da lontano: uno dei siti archeologici di epoca ellenistica più importanti della Sicilia (e forse dell’area magnogreca), anche perché abbandonato alla polvere (e, ahimé, al saccheggio) dei secoli, senza che nessuno vi si sia insediato successivamente. Morgantina sarebbe potuta essere un gioiello intatto, e comunque è uno dei luoghi più sorprendenti e affascinanti della Sicilia. Nell’arco dell’intera mattinata ho contato sì e no una decina di visitatori (in pieno agosto!) – e non so dire se questo me l’abbia fatta amare ancora di più.
Al ritorno tocca a Piazza Armerina, altra città notevole per sovrapposizione di stili ed epoche (dalla normanna all’immancabile barocco, dal gotico-catalano all’aragonese, dal bizantino al neoclassico).
Nel pomeriggio decido di fare una follia: andare a Mazzarino, sotto il sole implacabile che fa schizzare la temperatura a 40 gradi – voglio vedere la città famosa per il castello e ora alla ribalta delle cronache agostane a causa della rivolta per la faccenda dell’ospedale (e nota a me solo per aver dato i natali e il soprannome a un cugino acquisito, ormai morto da un quindicennio, immigrato mezzo secolo fa nella mia Sant’Angelo di Brolo, baffutissimo e sicilianissimo, molto bravo a giocare a briscola a chiamata, che zoppicava, tartagliava e aspirava tabacco, e che però la sapeva lunga, tanto che ha finito per seppellire tutti quelli che, quando io ero bambino, lo pigliavano per il culo: caro Salvatore Mancuso, detto “Mazzarino”, eccomi finalmente nel tuo irraggiungibile paese). Ci si arriva dopo avere attraversato un’intera vallata di filari di fichi d’India, colline dorate a perdita d’occhio punteggiate di mandorli e ulivi e inframezzate da muri a secco, e quelli che sembrano da lontano i ruderi di due rocche prospicienti – dopo di che si intravvede il poderoso castello e, poco più in là, inerpicata sull’altopiano, la città. (....)

(La botte di Diogene - blog filosofico)

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Si ringrazia l'autore per la gentile concessione

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