Festa della Liberazione: la filastrocca del 25 aprile di Mimmo Mòllica

Festa della Liberazione: la filastrocca del 25 aprile di Mimmo Mòllica 25/04/2024 - La «Filastrocca del 25 aprile» di Mimmo Mòllica ricorda la liberazione dell'Italia dalla dittatura fascista e dall'occupazione nazista. Una data importante per adulti e bambini, da non dimenticare per dire 'no' ai totalitarismi e a tutte le guerre. Sempre e in  ogni luogo, «meglio fiori che armi». «Filastrocca del 25 aprile» di Mimmo Mòllica

BASILE: "LA ‘TRATTATIVA’ ALTRO NON È CHE INVENZIONE PURA, ESTRAPOLATA CON TRAGICOMICO ARTIFICIO DA PEZZI DI VERITÀ"

Palermo, 30/05/2010 - Con richiesta di divulgazione propongo alla vs/cortese attenzione la qui allegata mia memoria giudiziaria depositata nella cancelleria del Tribunale di Palermo il 6 maggio us. scorso dal mio avvocato. Dopo ben più di 8 anni spero ancora che la parte sana della magistratura - se esiste - abbia il coraggio di recitare il suo ruolo istituzionale e prenda atto della concreta e granitica verità,
che deve necessariamente vedere lo scrivente nelle vesti di calunniatore, o l'emersione dell'infame scenario e di quei suoi attori, istituzionali e criminali che il 19 luglio 1992 massacrando Paolo Borsellino e la sua scorta.

"La trattativa" (sic.): altro non e, che invenzione pura, estrapolata con tragicomico artificio da pezzi di verità importantissimi, per sfuggire all'infamante verità, che vede protagonisti quei politici, quelle istituzioni che salvarono se stessi e la loro democrazia, attuando l'urgentissima strage di via d'Amelio.
Molto di tutto questo è potuto accadere soprattutto grazie ai tanti (spero siano solo) quaraqquaqua che in questi ultimi 18 anni hanno vissuto di rendita scalando i resti dei cadaveri dei nostri eroi.

Gioacchino Basile
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TRIBUNALE PENALE DI PALERMO
- Seconda Sezione Penale -
Il sottoscritto Gioacchino Basile, parte civile nel procedimento penale N. 2032/04 R.G.N.R. pendente davanti al Tribunale Penale di Palermo (R.G. TRIB. N. 2987/99), rappresentato e difeso dall’avv. Marianna Basile del Foro di Gorizia, con studio legale in Monfalcone (GO) in via Luigi Galvani n. 18, deduce quanto segue per il tramite della presente:
MEMORIA ex art. 90 nonché RICHIESTA ex art. 121 c.p.p.
Premesso che:
- l’odierna persona offesa è parte civile nel processo in epigrafe indicato per il delitto di cui agli artt. 590, commi 1, 2, 3 e 5, nonché 583, comma 2 n. 1, c.p. in cui sono imputati Lemetti Luciano, Cortesi Giuseppe e Cipponeri Antonino perché ciascuno nella qualità di direttore pro tempore dello stabilimento di Palermo della Fincantieri Cantieri navali S.p.A., per colpa generica nonché per negligenza, imprudenza, imperizia, violazione di leggi e regolamenti, consistite nell'aver omesso di adottare anche le più elementari misure di prevenzione finalizzate ad evitare l'inalazione di polveri e fibre di amianto durante l'attività lavorativa – ad esempio non dotandolo di abiti da lavoro, mascherina idonea, berretto o cuffia, non provvedendo ad aspirare la polvere di amianto prodotta durante il lavoro con idonei strumenti localizzati, non disponendo che i locali dove l'attività lavorativa veniva svolta venissero costantemente lavati e bagnati, non prevedendo che il lavoratore esposto, al termine del lavoro, si lavasse e cambiasse la tuta indossata, non prevedendo una durata del lavoro limitata nel tempo con periodi di interruzione di alcuni mesi o anni per consentire ai polmoni di liberarsi dalle polveri di amianto inalate (come previsto tra l’altro prima dall'art 21 DPR 303/1956 e dagli art. 140 lettera f) e 157 DPR 1124/1965 e poi dal D.L.vo 277/1991) cagionava al lavoratore Basile Gioacchino (in servizio presso Cantieri Navali con mansioni di ponteggiatore, calderaio, montatore e carpentiere navale dal 1967 al 1990) una lesione personale gravissima, in quanto affetto da asbestosi polmonare da considerare malattia insanabile. Fatto commesso il Palermo il 22.12.2004 (data del primo accertamento della malattia) fino al 23.10.2008;
- in relazione alla testimonianza resa dal sig. Gioacchino Basile all'udienza dibattimentale del 8.4.2010 davanti al Tribunale di Palermo ed, in particolare, nel merito delle vicende sui punti: 1) presenza e modalità di smaltimento dei rifiuti tossici e di amianto; 2) gestione dell’amianto al di fuori del ciclo produttivo aziendale;
- Al fine di corroborare e provare quanto dallo stesso esposto, si evidenzia quanto segue.
1) Presenza e modalità di smaltimento dei rifiuti tossici e di amianto (periodo di riferimento: aprile 1967 fino al 1969 in qualità di dipendente della Ditta Accomando; febbraio 1971 fino al novembre 1990 quale dipendente di Cantieri Navali di Palermo).
In sede di testimonianza il sig. Gioacchino Basile si riservava di produrre la documentazione che qui di seguito si menziona fra la narrativa dei fatti che, senza voler annoiare chi ci legge o essere inutilmente prolissi, riprendiamo solo a frammenti giusto per garantire ordine e logicità nella cronologia dei fatti che qui ci occupano.
Innanzitutto sulla presenza di ammassi di rifiuti e sullo stesso stoccaggio all'interno dello stabilimento navale Fincantieri di materiale proveniente dalle navi in riparazione tra cui fibra e polvere di amianto, relativa al mese di novembre 1990 di cui tanto si parla in questo processo e di cui “modesto” racconto ne faceva l’odierna parte civile Gioacchino Basile in sede di testimonianza in dibattimento del 08.04.2010, si allega la documentazione di cui al n. 1, riportante n. 3 fotografie e n. 2 foto satellitari rimostranti lo stato dei luoghi.
In particolare, le foto che si depositano ritraggono la presenza di una rilevantissima quantità di rifiuti di lavorazione provenienti dalle navi in riparazione e stoccata, dall’estate 1987 fino al mese di novembre del 1990, tra l'officina blocchi, in cui il sig. Basile era solito lavorare, e lo sbocco a mare della banchina che degradava al mare.
Si precisa che l’officina in questione, seppur ampliata in lunghezza, è tutt’ora esistente. Le foto ritraggono il fabbricato adibito a quell’officina la cui parete più lunga misurava, all’epoca, circa un centinaio di metri e si trovava situata a circa una sessantina di metri dal mare.
Le stesse venivano scattate da alcuni lavoratori dello stabilimento Fincantieri nei giorni successivi al licenziamento del Basile – 13 novembre 1990 - e consegnate allo stesso nel mese di giugno del 1993.
In queste foto è ritratta la vera causa del “tentato”, in quel tempo e fino al 6 ottobre 1994, licenziamento di un lavoratore che provava ad opporsi con fierezza a “cosa nostra”.
E, d’altronde, quell’ingiusto licenziamento poteva successivamente concretizzarsi solo grazie alle “rozze” omissioni della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo e della Prefettura di Palermo, (vedi relazione Commissione Antimafia) e, ancora di più, grazie alla strage di via D’Amelio!!!
Dalle foto si può agevolmente notare che una grandissima quantità di materiale “di risulta”, che nei tre anni successivi era almeno raddoppiata, veniva stoccato a cielo aperto proprio in prossimità dell'officina all'interno della quale lavoravano circa un centinaio di dipendenti.
Tra gli scarti vi erano fibre e polveri di amianto provenienti dagli interni delle navi in riparazione e trasformazione che, una volta prelevati dalla stessa, venivano, per disposizione del datore di lavoro, depositate negli spazi interni dello stabilimento.
A tali fatti seguiva poi, con riferimento alla condotta attiva del sindacalista Basile tesa a fronteggiare una situazione di evidente illiceità nell’uso e nello smaltimento di amianto e relative sostanze tossiche, l'interrogazione parlamentare presso l'Assemblea Parlamentare Siciliana dd. 12.11.1990 (doc. n. 2) presentata dall'On. Deputato Regionale Franco Piro, su iniziativa dello stesso Gioacchino Basile, a mezzo della quale si evidenziava la presenza all'interno delle aree del cantiere navale di una grande quantità di rifiuti tra cui amianto.
A riprova della grande “provocazione” che veniva apertamente e formalmente manifestata dal dipendente Basile Gioacchino alla sua azienda (Fincantieri S.p.a.), si produce missiva del giorno 13 novembre 1990 (si evidenzia che si tratta di lettera che seguiva immediatamente l’interrogazione parlamentare dello stesso lavoratore dd. 12.11.1990) con cui Fincantieri S.p.a. comunicava il licenziamento del lavoratore Gioacchino Basile (doc. n. 3 ). A tale fatto, poi, seguiva una vicenda processuale che, protrattasi fino al giudizio di legittimità in Cassazione terminato nel 1998, già nel marzo del 1992 vedeva la sentenza del Giudice dott. Ardito dichiarante l’illegittimità in diritto ed in fatto del licenziamento de quo (doc. n. 4).
Durante la testimonianza processuale dell’odierna parte civile, Basile, con riferimento alla presenza dell'amianto nei luoghi di lavoro, si riferiva altresì all'esposto dd. 18.6.1993 (doc. n. 5) dallo stesso redatto e sottoscritto ed inviato al Nucleo Operativo Protezione Ambiente della Polizia Municipale di Palermo. L’esposto, oltre alle foto, era corredato anche da due documenti corrispondenza fra la Cooperativa Picchettini e Fincantieri (doc. n. 6 e doc.n. 7).
A seguito della denuncia dd. 18.06.1993 la Procura presso il Tribunale di Palermo avviava le indagini sul presunto illecito smaltimento di rifiuti tossici e di amianto, iscrivendone notizia di reato nel registro 335 c.p.p. al n. 25666 presso la Procura della Repubblica di Palermo, poi iscritto al n. R.G. dib. 4380/95 (doc. n. 8).
L’esposto del 18.06.1993 in particolare metteva in luce: - la presenza di rifiuti all'interno dello stabilimento Fincantieri, tra cui l'amianto; - la circostanza per la quale tali rifiuti e scarti di lavorazione venivano collocati all'interno di cassoni di cemento e successivamente utilizzati dalle ditte appaltanti per la realizzazione delle nuove dighe all'interno dello specchio d'acqua prospiciente lo stabilimento Fincantieri nonché per la realizzazione delle banchine e per il consolidamento del porticciolo dell'Acquasanta e di Villa Igea.
Di ciò che effettivamente “scatenò” questo esposto del 1993 se ne può dare atto nel documento n. 9 ivi allegato, riportante l’intera relazione sull’infiltrazione mafiosa nel Cantieri Navali di Palermo - alle pagine n. 44 e seguenti (all. n. 9).
2) Gestione dell’amianto al di fuori del ciclo produttivo aziendale.
Storicamente non si è in grado di esporre la modalità effettiva di smaltimento degli scarti di lavorazione fra cui l’AMIANTO.
Con sicurezza, come già esposto in sede di testimonianza dd. 08.04.2010, l’odierna parte civile può affermare che già a partire dalla metà degli anni ‘70 i lavoratori avevano preso coscienza della pericolosità alla propria salute che costituiva il contatto con fibre e polveri di amianto.
A fronte di questa “nuova paura” molti lavoratori, anche a mezzo propri sindacalisti, avanzavano proteste e richieste di adozione di strumenti o modalità di lavoro più in linea con la sicurezza sul lavoro. Tuttavia mai gli addetti alla sicurezza di Fincantieri hanno provveduto a preservare i dipendenti Fincantieri S.p.a. dal contatto con “amianto” né mai hanno concretamente predisposto alcunché per rispettare le normative di cui già ai D.P.R. 303/56 e D.P.R. 1124/65 (successivamente poi modificato ed ampliato con D.Lvo n. 277/91).
La ragione di tali inosservanze non era mai del tutto casuale: era già chiaro anche allora che la gestione dei pericolosi scarti produttivi, storicamente gestita da ditte legate a “cosa nostra”, doveva essere oggetto del provento di famiglie come quella dei Galatolo, che si era fatta largo dentro i tuguri del crimine utilizzato in funzione imprenditoriale e politico fin dall’ottobre del 1973.
L'utilizzo su larga scala nel ciclo produttivo di Fincantieri dell'amianto e di altri scarti produttivi velenosi legato sia alla realizzazione delle navi che alla riparazione delle stesse - diverse decine di navi ogni anno - poneva, di necessità, il problema del costoso smaltimento dei rifiuti e della loro gestione.
Dopo l’esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo dd. 10.05.1987 (doc. n. 10) sottoscritto dai 120 lavoratori, Fincantieri s.p.a. per motivi di prudenza, non poteva più fare uscire i velenosi scarti di lavorazione dallo stabilimento e, pertanto, cominciava l’opera di “ammassamento” dello stesso amianto come da foto ivi dimesse che ne documentano il fatto.
Per la società in questione, insomma, oltre alla necessità di sfuggire ai ragguardevoli esborsi dovuti allo smaltimento legale degli stessi, si presentava adesso l’esigenza di disfarsi dell'enorme quantità di rifiuti stoccati per circa sei anni all'interno dello stabilimento.
Così, al fine di rendere tutto più agevole e veloce al minor costo possibile, Fincantieri s.p.a. si adottò il metodo del c.d. lavoro nero controllato e governato da “cosa nostra”.
Il metodo di smaltimento praticato dalle imprese riconducibili a “cosa nostra” ed incaricate da Fincantieri dello “smaltimento”, consisteva nell’affondamento in mare di quei rifiuti, utilizzandoli al posto del cemento e della pietra cava, realizzando così un ingente e criminoso profitto per azienda di stato …. “compagna delle merende” imprenditoriali.
Le operazioni di smaltimento de qua venivano “pilotate” dall’allora direttore dello stabilimento Fincantieri sig. ing. Antonino Cipponeri, il quale disponeva, in piena consapevolezza, di tutti i servizi criminosi e criminali resi dalla famiglia Galatolo che controllava il quartiere dell’Acquasanta (quartiere in cui è sito lo stabilimento navale Fincantieri di Palermo).
Quella dei Galatolo era da sempre conosciuta nella borgata come la famiglia dei “feroci criminali” che, seppur indicati già nella seconda meta degli anni ‘80 con estrema chiarezza dai “pentiti”, grazie alle omissioni istituzionali dominava indisturbata e capace di garantire il silenzio attorno a qualsiasi attività illegale che andava in scena dentro lo stabilimento Fincantieri.
Fu così che il trasporto e lo stoccaggio venne affidato prevalentemente alle ditte controllate da esponenti della famiglia Galatolo ed in ogni caso a ditte o cooperative ad essa “amichevolmente” asserviti o riconducibili.
Brevi cenni sulla famiglia Galatolo.
Questa storica famiglia criminale fino alla metà degli anni ‘50 dettava già legge nel nuovo mercato ortofrutticolo di via Monte Pellegrino e faceva sentire il suo feroce peso criminale anche all’interno dello stabilimento navale e nel porto di Palermo.
Nel 1956 venne decimata da Michele Cavataio ed i suoi membri superstiti furono allontanati dal cantiere.
Per le evidenti commistioni fra mafia, istituzioni e politica, già nell’anno 1962 la prima Commissione Antimafia apriva un’inchiesta parlamentare che non ebbe alcun effetto - al di fuori di quello di costituire l’alibi alle difficoltà incontrate dalle istituzioni nel contrasto all’azione mafiosa – se non quello di consentire a “cosa nostra” di rimanere padrona del porto e dello stabilimento navale, proteggendo l’interesse dei grandi affari dettati dall’agenda governativa, regionale e nazionale.
La strage di via Lazio (dicembre 1969), che segnava l’uscita di scena di Michele Cavataio, determinava anche il nuovo timido re-ingresso di Vito, Gaetano, Raffaele e Giuseppe Galatolo e dei loro rispettivi figli, all’interno delle attività dello stabilimento navale e del Porto di Palermo.
Esemplificativo… seppur senza raggiungere le vette future, della ferocia e determinazione di questa famiglia sono i racconti delle persone della borgata marinara che riferivano di come Giuseppe Galatolo addestrava i propri figli ad uccidere fin dalla tenera età. L’”addestramento” contemplava all’inizio l’instaurazione fra questi ragazzini ed agnellini e capretti di un rapporto di amicizia e di affezione per poi passare all’uccisione da parte degli stessi degli animali che venivano uccisi a mani nude, cavando a vivo gli occhi delle povere bestioline.. che poi venivano da loro cotte e mangiate!!!
Nel 1971, espiata la condanna ad una lunga pena detentiva, Vincenzo Galatolo, non appena libero, diventava uomo di fiducia di Rosario Riccobono – detto anche “il terrorista” - che nel tempo diede sempre maggiore importanza al ferocissimo criminale Vincenzo Galatolo.
All’indomani della mareggiata che distrusse il Porto di Palermo (fine anno 1973), Vincenzo Galatolo ed i suoi germani, fiancheggiati da Antonino Di Cristofolo, Sindacalista UIL e “fedelissimo” dipendente di Fincantieri, nonché dalla benevolenza di CSL e CIGL, assunsero il pieno controllo dello stabilimento Fincantieri e del porto di Palermo.
In queste sedi i Galatolo fungevano da garanti dei patti politico-affaristici e sociali attivati dai governi regionali e nazionali per far fronte all’emergenza socio-economica innescata dalla mareggiata ed alle necessità di fronteggiare i costi produttivi per resistere – con i notevoli contributi della comunità Europea - nel mercato mondiale delle costruzioni e delle riparazioni navali.
Già all’indomani dell’infame assassinio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo (30 aprile 1982), in occasione d’un duplice omicidio avvenuto in via E. Di Blasi a Palermo, Gioacchino Basile denunciava alla Procura della Repubblica di Palermo (P.M. dott. Alberto Di Pisa), la presenza dei citati soggetti criminali all’interno dello stabilimento Fincantieri.
Solo qualche anno più tardi lo stesso Basile nuovamente poneva l’accento sulla presenza di ditte e soggetti facenti capo, direttamente ovvero indirettamente, a “cosa nostra”: questa volta con l’esposto del 10 maggio 1987, sottoscritto da ben centoventi lavoratori dipendenti di Fincantieri (doc. n. 10).
Nonostante le omissioni Istituzionali successive a dette denunce, ancorché i fatti esposti trovassero riscontro nelle dichiarazioni di molti “pentiti” di mafia, Gioacchino Basile continuava a denunciare tale presenza mafiosa.
L’inerzia della magistratura e delle istituzioni e la crescente ed evidente emersione del fenomeno criminale all’interno degli stabilimenti Fincantieri s.p.a. di Palermo, produceva una sempre maggiore adesione dei dipendenti Fincantieri a denunce pubbliche alle autorità politiche che si pensava fossero antimafiose.
Fra queste denunce-querele si cita quella del 1988 sottoscritta da ben 518 lavoratori-dipendenti Fincantieri s.p.a. – inviata direttamente al Segretario Nazionale del PCI Achille Occhetto -; e quella dell’anno 1989 con addirittura 750 sottoscrittori dipendenti – inviata al Sindaco di Palermo Leoluca Orlando ed alla sua giunta Antimafiosa.
Contro la presenza di “cosa nostra” all’interno dello stabilimento navale di Palermo e contro il silenzio connivente della dirigenza dello stabilimento, Gioacchino Basile ed altri lavoratori il 2 novembre 1989 organizzava un ben riuscito sciopero – denuncia che vide la partecipazione di tutti i lavoratori dello stabilimento navale.
Scopo dello sciopero era portare all’evidenza pubblica: 1) la presenza di “cosa nostra” nello stabilimento di Palermo di Fincantieri s.p.a.; 2) lo scandaloso utilizzo delle funzioni socio-ambientali dei criminali in favore di Fincantieri anche attraverso ditte appaltanti nella produzione cantieristica navale e nei grandi appalti del riassetto costiero.
Quella volta l’opera intimidatrice venne gestita direttamente da Vincenzo Galatolo, Antonino Cipponeri e dagli stessi esponenti sindacali a loro asserviti.
L’implacabile omissione delle Istituzioni, tuttavia, non cessava neanche dopo la scandalosa evidenza (operazione Seat Port o Big John) che appena due mesi dopo (gennaio 1990), vide i massimi esponenti di quella famiglia mafiosa arrestati per il più grande business di cocaina (ben 650 kg) trasportata a mezzo navi che trovavano ricovero per finte riparazioni dentro lo stabilimento navale Fincantieri a Palermo!!!! …. Anzi, dopo quello scandalo, sindacati, politici e azienda, incoraggiati dalla capacità omissiva delle istituzioni, cominciarono ad elaborare il piano per isolare il “fastidioso” sindacalista dipendente Fincantieri s.p.a., sig. Gioacchino Basile, di cui il cortese lettore potrà prendere in minima parte contezza previa consultazione della stessa relazione della Commissione Antimafia qui allegata al doc. n. 9 e alla missiva dd. 7.05.2007 (all. doc. n. 11).
Ritornando alla gestione dell’amianto, va affermato che, allorquando Gioacchino Basile predispose l’esposto dd. 18.6.1993 corredato dalle foto sopra indicate (doc. n. 1), non era a conoscenza del fatto che il Presidente di una Associazione Diportista, tale Giuseppe Daidone, i cui posti barca si trovavano nel porticciolo dell'Acquasanta, aveva, contemporaneamente, denunciato all'Autorità Giudiziaria fatti analoghi.
Daidone, infatti, esponeva nella propria denuncia di aver assistito, durante i lavori di realizzazione delle banchine e delle dighe del porticciolo dell'Acquasanta, all’affondamento in mare di cassoni in cemento armato. Detti cassoni, riferiva in denuncia-querela il Daidone, prima di essere affondati, venivano in buona parte riempiti con residui delle lavorazioni provenienti dall'antistante cantiere navale. Il trasporto dei rifiuti fino al porticciolo veniva eseguito da automezzi provenienti dallo stabilimento Fincantieri.
Allegata alla denuncia di tale Giuseppe Daidone vi erano anche le due foto satellitari del documento n. 1 in allegato, a mezzo delle quali è possibile scorgere, proprio in corrispondenza dell'officina blocchi situata all'interno dello stabilimento Fincantieri, in una (doc. 1b)) la rilevante presenza dei rifiuti prima indicati e nella seconda (doc. 1c)) la sparizione degli stessi.
Gli esposti in oggetto (Daidone-Basile ) facevano nascere il processo penale già pendente davanti alla Pretura Circondariale di Palermo N.11761/94 - sub N 4380/95 R.G. dibattimento a carico, fra gli altri, di Antonino Cipponeri, Bernardo Di Gregorio (allora responsabile della sicurezza dello stabilimento Fincantieri) e di altri dieci esponenti dell’autorità portuale di Palermo.
Non sarà sfuggito al cortese lettore come le fotografie a corredo di questa memoria documentano, in modo granitico, la presenza di vere e proprie colline di rifiuti ed amianto che per quasi sei lunghi anni furono sotto gli occhi di tutti quelli che, privati ed istituzioni, avevano modo anche per ragioni d'ufficio di accedere allo stabilimento Fincantieri e prendere contezza dello stato dei luoghi senza che alcuno di costoro avesse mai preso in considerazione di denunciare il fatto (capitaneria di porto, polizia giudiziaria ed ispettori del lavoro in primis).
Giuseppe Daidone venne più volte convocato dal P.M. per assumere sommarie informazioni nel corso delle indagini preliminari ma il denunciante non poteva riferire alcuna circostanza diversa dalla minima conoscenza diretta dei fatti dallo stesso vantata.
Per la scelta investigativa del P.M. analoga sorte non venne riservata al denunciante Gioacchino Basile che, prima della convocazione quale testimone al processo, mai venne assunto a sommarie informazioni nel corso di quelle preliminari indagini.
Nonostante, quindi, l’odierna parte civile Basile fosse già da circa 10 anni pubblicamente noto per le sue battaglie e per le sue denuncie pubbliche contro “cosa nostra” e contro il verminaio statalista che uccideva la speranza fin dentro le coscienze dei lavoratori Fincantieri ed i cittadini della comunità palermitana, nessun organo requirente si preoccupava si “sentirlo” in sede di indagini….
Si precisa che, nel momento storico in cui Gioacchino Basile denuncia i fatti di merito – esposto del 18 giugno 1993 – la sentenza del Pretore nella causa di lavoro contro Fincantieri s.p.a., condannava quest’ultima a reintegrare nel posto di lavoro il dipendente Basile per essere ingiustificato il licenziamento.
La società in questione, tuttavia, pur di non riammettere al lavoro e negli ambienti di lavoro l’odierna parte civile, la retribuiva impedendo allo stesso dipendente Basile “fastidioso ed insidioso elemento di disturbo alla quiete e libera vita crimogena ormai radicatasi nello stabilimento navale di Palermo” lo svolgimento della propria attività lavorativa in favore di Fincantieri s.p.a..
Il clima, insomma, che si venne a delineare per il dipendente e denunciante Gioacchino Basile era paradossale: da un lato Fincantieri s.p.a. retribuiva il lavoratore senza accettarne la sua prestazione lavorativa; dell’altro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo che avrebbe dovuto compiere indagini partendo principalmente dall’acquisizione di informazioni dirette dal denunciante Basile non lo chiamava mai a deporre…..
In tale sede Gioacchino Basile avrebbe volentieri riferito sulla natura di quei velenosi scarti di lavorazione, sulle trame affaristiche connesse all'illegale, ma molto più economico, smaltimento dei rifiuti; sull’utilizzo di quei velenosi scarti di lavorazione in luogo del cemento e dei materiali rocciosi previsti per la solidità delle opere portuali e, “dulcis in fundo”, sul ruolo che in quegli anni, grazie alle omissioni della Procura e della Prefettura di Palermo, “cosa nostra” continuava (anche dopo la strage di via D’Amelio) a svolgere dentro lo stabilimento Fincantieri ed in tutta l’area portuale di Palermo.
In quel momento storico i compagni di lavoro avevano avvisato Gioacchino Basile che le analisi su quegli scarti di lavorazione erano state eseguite anziché sul reale materiale da avviare in discarica su campioni di sabbia ben scelta da uomini di fiducia dell’azienda e consegnate all’ossequioso vigile urbano che le avrebbe poi recapitate al soggetto che effettuava le analisi…. ovviamente il tutto ben confortato da costosa e compiacente perizia di parte retrodatata (leggi pag. 45 della relazione della Commissione Antimafia doc. n. 9).
Circostanze tutte che allora ben potevano essere verificate avendo ancora in piena disponibilità parte degli scarti di lavorazione…
Proprio in virtù delle limitate notizie che Giuseppe Daidone poteva fornire e delle discutibili perizie tecniche prodotte in sede di indagini preliminari, i fatti di reato massimamente ipotizzabili in capo alla società Fincantieri s.p.a. per lo smaltimento di quei rifiuti era limitata alla sola ipotesi di reato di illegittimo abbandono dei rifiuti.
In buona sostanza chi di dovere ed in particolare l’allora organi requirenti, non ebbero mai il coraggio o la competenza appropriata alla funzione che lo Stato italiano gli conferiva: accertare i fatti di reato e perseguire i colpevoli.
Consigliato dallo stesso Giuseppe Daidone, Gioacchino Basile, in occasione dell’udienza dibattimentale in cui veniva ascoltato in qualità di teste della rappresentate del PM, si recava in Procura della Repubblica a Palermo per chiedere alla stessa le ragioni per le quali egli, che ben conosceva la genesi di quegli scarti di lavorazione e le conseguenti fasi affaristico – criminali, mai era stato ascoltato durante la fase istruttoria. A tale richiesta di chiarimento l’odierna parte civile, sig. Basile, venne ammonito dallo stesso PM assegnatario del procedimento penale in questione e quando nel marzo del 1997 Gioacchino Basile venne convocato in qualità di teste trovava un altro rappresentate del PM (da poco giunto da Bologna) poco interessato alle denuncie formalizzate a suo tempo.
In quelle deposizioni si indicava la perfetta sintonia di intenti fra Antonino Cipponeri e “cosa nostra”. Lo stesso dirigente, già nel corso dell'anno 1989, aveva trasferito senza corrispettivo in favore della famiglia criminale dei Galatolo parte del patrimonio aziendale (del valore di circa 1.300.000.000 (unmiliardo e trecento milioni) riferibile all’anno 1987, costituito da tavole per ponteggi.
Già la sera del 25.6.1992 quando Gioacchino Basile aveva personalmente consegnato al dott. Paolo Borsellino copia del documentato esposto del 29 giugno 1992 (doc. n. 12) - prima di inviarlo alla stessa Procura a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, così come consigliatogli dal Magistrato- la Procura di Palermo era stata costretta ad iniziare le indagini.
Dette facilissime ed inequivocabili indagini, che scoperchiavano il verminaio statalista, furono poi stroncate dalla bomba di via D’Amelio.
Queste affermazioni, nonché quelle relative alle omissioni della Procura e della Prefettura di Palermo, trovano preciso e puntuale riscontro nella qui allegata relazione della Commissione Antimafia dd. 26.1.1999 (doc. n. 9).
Le omissioni della Procura di Palermo, di cui il volto più visibile è quello dell’attuale Procuratore aggiunto Vittorio Teresi e che non potevano realizzarsi senza la strage di via D’Amelio, hanno permesso che lo Stato a Palermo, dentro lo stabilimento navale, nel Porto di Palermo ed in tutta la costa marinara della città, abdicasse alla propria funzione essenziale.
In tale modo si apriva la via ad un metodo di gestione dei poteri economici, politici, sindacali ed istituzionali depauperati dei valori della legalità, sostituiti da una normalità modellata sull’accettazione di comportamenti platealmente illegali, ormai assurti a norma fondante della progressiva sparizione dei confini fra lo Stato ed antistato, tra diritto e crimine, perché la Costituzione e le sue leggi, per le omissioni di certi attori della Magistratura, erano ormai assoggettate alle esigenze affaristiche delle corporazioni espresse del potere di fatto esercitato e garantite dalle funzioni militari di “cosa nostra.”
Al di là d’ogni ragionevole dubbio, questo contesto godette il vantaggio della strage di via D’Amelio, che determinava l’immediata uscita di scena del dottor Paolo Borsellino la cui attenzione verso tale verminaio affaristico criminale operante in Palermo è da intravedersi dalla notificazione, avvenuta il 10.7.1992, a Gioacchino Basile affinché si presentasse presso gli uffici della Procura di Palermo il 16 luglio 1992.
Le indagini scaturenti dal materiale contenuto nell’esposto del ‘92 avrebbero portato alla luce l’intrigo affari, mafia e loro rapporti con politica e le istituzioni.
La bomba di via D’Amelio preservava lo status quo, così come in precedenza tale situazione veniva garantita dalle omissioni del dottor Vittorio Teresi e di altri esponenti della Procura, e salvavano Antonino Cipponeri, le partecipazioni statali ed il grumo affaristico mafioso, che, dalla distruzione del Porto di Palermo (mareggiata del 1973) ad almeno fino alla fine degli anni ‘90, dettava le proprie regole economiche e socio-politiche nel Porto di Palermo e sulla costa marinara, grazie “alle difficoltà” palesate dalle Istituzioni preposte al controllo di legalità.
Gli articoli di stampa con documentazione dimessa agli allegati n. 13 e 14 costituiscono un minimo, ma eloquente, specchio della realtà sopra descritta.
Ulteriore indice della contiguità tra Fincantieri s.p.a. e organizzazione criminale denominata “cosa nostra” è la vicenda del terreno di via Ammiraglio Rizzo.
I dipendenti di Fincantieri richiedevamo all'azienda, fin dagli inizi degli anni ’70, l'acquisto di detto fondo per costruire le case di abitazione utilizzando i mutui agevolati della Regione Sicilia.
Per l’acquisto di questo terreno lungo l’arco di un ventennio furono costituite varie cooperative da noi dipendenti. Fincantieri, tuttavia, rigettava la richiesta adducendo varie questione burocratiche.
Intanto accadeva che l’odierna parte civile, intanto allontanasi dallo stabilimento Fincantieri di Palermo per l’avvenuto licenziamento, veniva notiziato dai compagni di lavoro che i Galatolo stavano trasportando proprio su quel terreno dell’amianto per ivi seppellirlo.
L’operazione si stava svolgendo con urgenza in considerazione del fatto che all'interno dello stabilimento Fincantieri non era più utilizzabile l’amianto a seguito delle normative sopravvenute e, perciò, occorreva eliminare ogni traccia.
Successivamente, a far quadrare il tutto, era la notizia data dai giornali che quel terreno di via Ammiraglio Rizzo era stato ceduto da Fincantieri ad un noto mafioso - tale Alfano ed a Camillo Graziano, cognato del poi “pentito” Francesco Onorato e figlio di costruttori mafiosi nella totale disponibilità dei Galatolo.
Alla luce di tali fatti, appaiono alquanto “rozze”, laddove sussistessero, le condotte omissive dei soggetti requirenti del procedimento penale iscritto al R.G.N.R. n.11761/94 - che diede vita al “Processo” N 4380/95 R.G. dibattimento - e tali da assumere contorni inquietanti che meriterebbero il giusto chiarimento.
Sono ormai ben otto anni che l’odierna parte civile, il sig. Gioacchino Basile, assume d’aver “scoperchiato” il verminaio politico - istituzionale e criminale che durante il periodo noto (1978 – 1992) del consociativismo politico pose le basi per la morte di molti, troppi, uomini e donne delle nostre istituzioni.
Da qualche anno – togliendo dignità alla nostra Costituzione – per fermare la clamorosa verità che volle la strage di via D’Amelio, da più parti, anche istituzionali, si assiste al tentativo di costruire altre impossibili verità, come ad esempio la c.d. “trattativa” tra Stato e “cosa nostra”.
I Galatolo ed i loro accoliti, Fincantieri s.p.a. e gli uomini delle istituzioni, indiscutibilmente hanno beneficiato della strage di via D’Amelio laddove probabilmente le indagini svolte non sono state idonee o sufficienti a identificare i reali fatti e ad individuarne gli effettivi colpevoli….. perché allora non si spiegherebbe come mai, ancora per tanti anni, gli ambienti dello stabilimento di Palermo Fincantieri s.p.a. continuavano ad essere “governati da certe presenze poco limpide”…
Persino le richieste di audizioni dell’odierna parte civile con le varie missive (all. ti n. 15- 16- 17- 18- 19) sono sempre rimaste inevase.
Richiesta audizione riservata al Presidente della Commissione Antimafia Roberto Centaro (doc. n. 15); lettera aperta a Giancarlo Caselli (doc. n. 16); richiesta audizione al Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Pisanu (doc. 17); lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi ( doc. 18); lettera aperta al Procuratore agg. Vittorio Teresi (doc. 19)
Tutto ciò premesso, con la presente memoria si richiede ai sensi dell’art. 121 c.p.p. l’invio della documentazione ivi allegata nonché dei fatti appena esposti agli uffici delle Procure della Repubblica presso i Tribunali Penali competenti al fine di accertare se sussistono gli elementi tali da ricondurre le vicende de quo ad ipotesi di reato e, conseguentemente, al fine di perseguire penalmente i soggetti che, di tali condotto penalmente rilevanti, sia siano resi responsabili.
La presente istanza, all’interno del procedimento penale in questione, è l’ennesima richiesta e speranza del mio assistito e di chi, nonostante tutto, crede ancora nelle Istituzioni ed in chi, rappresentandole, non macchia l’onore della nostra Costituzione.
Si allega alla presente il fascicolo dei documenti che ivi si dimette.
Con osservanza.
Palermo, 6 maggio 2010

Basile Gioacchino Avv. Marianna Basile

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