La complessità del mondo in cui viviamo, così condizionato e dominato dal digitale, ci pone di fronte a sfide educative nuove, intriganti, ma anche preoccupanti. I patti di comunità sono veri e propri accordi formalizzati da un 'patto' tra tutti gli adulti che a vario titolo partecipano alla vita educativa di una collettività (scuola, associazioni sportive, istituzioni civili e religiose, associazioni culturali).27 Ottobre 2021 - Mai come in questi ultimi due anni, gli strumenti digitali ci hanno permesso di restare vicini, di tenere vive relazioni con persone che vivevano, lavoravano e studiavano lontano da noi: se non avessimo avuto questi “ponti”, la pandemia ci sarebbe risultata ancora più pesante. Ma è anche vero che non sempre e non dappertutto è stato così: l’iperconnessione ha evidenziato nuove patologie, nuove psicosi, nuove paure, nuove problematiche, soprattutto nei più giovani.
Lo sviluppo tecnologico al quale stiamo assistendo e quello che verrà di qui in avanti è inarrestabile. Per questo è sempre più importante educarci e educare ad un uso corretto di questi strumenti e di questi ambienti. Imparare a starci in modo corretto, imparare ad usarli con consapevolezza, imparare ad autoregolarci nei tempi e nei modi. La parola d’ordine, dal punto di vista educativo, deve essere “accompagnarli”: accompagnare i nostri figli alla scoperta delle meraviglie messe a disposizione dal progresso, ad un uso sano, corretto e competente di questi strumenti.
COSA SONO E A CHE SERVONO I PATTI DI COMUNITÀ
E infatti nel nostro Paese cominciano a fiorire qua e là i cosiddetti patti di comunità, veri e propri accordi formalizzati da un contratto (il “patto” per l’appunto) tra tutti gli adulti che a vario titolo partecipano alla vita educativa di una collettività (scuola, associazioni sportive, istituzioni civili e religiose, associazioni culturali).
Queste esperienze regolano la vita di una comunità in senso sinergico: possiamo inventarci mille progetti stupendi sull’uso delle tecnologie a scuola ma se poi non c’è una sponda dentro casa, il progetto perde la sua valenza. Possiamo strutturare regole precise dentro casa sull’utilizzo dei dispositivi digitali ma se poi non le condividiamo con altre famiglie restano sterili perché nel confronto tra pari rischiamo che i nostri figli subiscano l’influenza di chi quelle regole non le ha e non le condivide.
Ci sono, ad esempio, esperienze di patti in cui una comunità ha deciso di non dare uno smartphone ai bambini prima dei 12 anni: provate ad immaginare cosa può voler dire per un ragazzino di prima media non avere il telefono e non avere compagni di classe, di calcio, di danza, di catechismo... con il telefono. Significa eliminare alla radice il confronto tra pari, che spesso è fonte di frustrazione (“Perché lui/lei sì e io no?”), ma ancor di più permette ai ragazzi di sviluppare competenze relazionali e strategiche che altrimenti non svilupperebbero. Oggi, ad esempio, si dà per scontato che i compiti per casa si passino tramite smartphone, ma se lo smartphone non ci fosse più, ci potrebbe essere più attenzione ad annotarli sul diario e comunque si limiterebbe (per non dire eliminerebbe) una fonte di distrazione continua.
(P. Pancrazio Gaudioso).
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